In Colombia prevale il no agli accordi di pace

In mezzo a un elevato l'assenteismo, ha votato appena il 38% degli elettori, poco più del 50% rifiuta il contenuto di quanto negoziato dal governo e le Farc. I vari leader annunciano la loro volontà di non abbandonare il cammino intrapreso
Un giornale con la scritta "No" agli accordi di pace

Un fulmine a ciel sereno. Una secchiata d'acqua fredda. Ci sono molti modi di definire il "no" agli accordi di pace tra il governo della Colombia e le Farc siglati appena lunedì scorso dopo 4 anni di negoziati realizzati a Cuba.

 

La vittoria è stata di stretto margine, il 50,5% contro poco più del 49% che ha votato a favore. Ma pare che l'elemento esseziale sia stato l'elevato assenteismo: appena il 38% dei votanti è accorso alle urne. Nessun sondaggio ha previsto questo risultato. Tutt'altro: il sì era indicato come vittorioso con percentuali che variavano dal 55 al 62%. Come spiegare allora un risultato così disastroso, una settimana dopo la cerimonia della firma ufficiale della fine della guerra interna con la guerriglia delle Farc, in presenza di una diecina di capi di Stato, una quarantina di ministri degli Esteri e i leader di organizzazioni internazionali, come il segretario generale dell'Onu?

 

La destra, capitanata dall'ex presidente Alvaro Uribe, ha fatto leva su un discorso cha ha trasformato gli accordi di pace in una sorta di sovietizzazione del Paese; il governo avrebbe poi claudicato davanti alle pretese della guerriglia che si sarebbe beneficiata di una generosa amnistia, godendo di alcuni scanni nel Parlamento nazionale e potendo inserirsi come organizzazione politica nella dinamica nazionale. Verità parziali e presentate come la rotta del Titanic. Il rancore nei confronti delle Farc ha fatto il resto in un Paese polarizzato politicamente. Sul versante delle forze impegnate a sostenere il sì, pare sia stato ridotto lo sforzo di portare a fondo la campagna, dormendo forse sugli allori dell'appoggio dei media, della comunità internazionale e della ragionevolezza degli accordi siglati con la guerriglia. Fin dall'inizio dei negoziati, infatti, si è segnalata la necessità di un lavoro pedagogico per spiegare all'opinione pubblica il processo in atto. Tutto sembrava annunciare un risultato praticamente scontato…

 

Sebbene sia vero che appare generosa la concessione di pene alternative a chi ha commesso crimini di guerra in cambio di una assunzione di colpa e di responsabilità nei casi di eccidi efferati, va anche detto che installare un rosario di processi che, per una elementare ragione di giustizia, dovrebbero comprendere anche i crimini commessi dai paramilitari e della forze armate (che sono più numerosi) significherebbe sommergersi in una giudizializzazione del conflitto che durerebbe decenni. L'effetto sarebbe l'opposto alla desiderata riconciliazione.

Non a caso, il sì è stato appoggiato da numerose vittime della guerra, tra le quali l'ex candidata alla presidenza Ingrid Betancourt e Clara Rojas, sua collaboratrice (oggi deputata), sequestrate durante 6 anni dalle Farc, oppure i parenti di 11 diputati dipartimentali assasinati nel 2002, oltre a varie organizzazioni che le riuniscono.

 

Cosa succederà ora? Non è facile prevederlo. Intanto è apparsa opportuna la dichiarazione delle Farc letta dal suo leader, Rodrogo Londoño, nel quale il gruppo ha annunciato la sua volontà di continuare il cammino di pace, «utilizzando la parola come unica arma per la costruzione del futuro». Il presidente Juan Manuel Santo, che ha messo in gioco tutto il suo prestigio politico e ha sempre ammesso di non disporre di un piano alternativo in caso di sconfitta nel plebiscito, ha ribadito la sua convinzione di continuare a lavorare per la pace e ha convocato tutte le forze politiche a costruire un accordo nazionale per affrontare la situazione. Da parte sua, Álvaro Uribe a moderato il suo discorso invitando a rinegoziare alcuni aspetti dell'accordo di pace, specialmente la questione della giustizia transitoria e la riparazione alle vittime del conflitto, alla quale anche le Farc dovrebbero partecipare con i beni nelle loro mani.

 

Come sempre succede nella vita, la sfida è di trasformare in forza una debolezza. Sul piano politico si apprende che non si può mai dare per scontato un risultato e non ci si può imbarcare in un processo del genere senza prevedere tutte le alternative. La democrazia colombiana ha dunque l'opportunità di costruire pezzo per pezzo la complessità di una convivenza pacifica che ha bisogno di percorrere un lungo cammino. L'alternativa è il caos.

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