Imprese efficienti perché sociali

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Maria è in pensione da alcuni anni. Ogni mattina esce presto, passa dalla signora Giovanna, un’anziana che non esce mai di casa, le sistema un po’ l’appartamento e avvia il pranzo. Nel pomeriggio, tre volte alla settimana, si reca in ospedale e passa alcune ore fra un ammalato e l’altro. Giancarlo è spesso al telefono: la sua cooperativa gestisce il trasporto di disabili e gli imprevisti non mancano. Silvia sta dietro il banco di un circolo di paese, punto d’incontro soprattutto per gli anziani. Mi ha scritto Carlo dalle Filippine, il programma di formazione di giovani falegnami prosegue bene, anche quest’anno sono una cinquantina. Maria, Giancarlo, Silvia, Carlo. Volontariato, cooperazione sociale, associazioni culturali, una ong, modi diversi di esprimere una vocazionesociale, per qualcuno nel tempo libero, per altri un lavoro. Si parla di non profit o di terzo settore, a volte di economia sociale, ma forse sarebbe più corretto definirle organizzazioni della società civile, termine caro a Stefano Zamagni, economista che guarda con attenzione alle realtà culturali in cui sono nate queste espressioni. Il non profit è nato negli Stati Uniti, dove domina la cultura del mercato, for profit appunto. “Le organizzazioni non profit si connotano, in un tale contesto, come non mercato. Non è privo di interesse ricordare – osserva Zamagni – che negli Usa la gran parte delle organizzazioni non profit sono nate per iniziativa di imprenditori for profit e non di associazioni, come in Europa e in Italia in particolare”. Nel contesto europeo si è invece sviluppato il welfare state, con lo stato che esercita un ruolo importante nella sfera economica e sociale. “Un’organizzazione che voglia differenziare il proprio modo di fornire i servizi da quello pubblico non ha senso che si definisca non profit – anche gli enti pubblici lo sono, dice Zamagni – si chiamerà piuttosto organizzazione di terzo settore. In Europa tali organizzazioni si caratterizzano prima di tutto come non-stato, anche se la definizione corrente è: né stato, né mercato”. Maria e Giancarlo troveranno presto un altro compagno di strada, l’imprenditore sociale. Chi è costui? Per dare forma a certi tipi di attività, dal volontariato negli ospedali alla donazione del sangue, dalla protezione civile all’assistenza agli immigrati sono state costituite associazioni di varia dimensione, ma quando si è trattato di gestire in maniera continuativa servizi socio-sanitari o di favorire l’inserimento nel lavoro di persone svantaggiate, si è sviluppata la variegata esperienza delle cooperative sociali, la cui legge ha ormai superato la boa dei dieci anni. A settembre 2001 è invece iniziato il cammino parlamentare di un disegno di legge che prevede una nuova figura, l’impresa sociale, che potrà assumere la forma giuridica anche di una società per azioni o a responsabilità limitata, ma che dovrà nello stesso tempo caratterizzarsi per gli ambiti di particolare rilievo sociale in cui opera, per il divieto di distribuire gli utili fra i soci e per l’assoluta indipendenza da soggetti pubblici o da imprese a scopo di lucro. Ce n’era bisogno e non c’è il rischio di sovrapporsi a quanto già fa per esempio la cooperazione sociale? Il dibattito è stato lungo e a tratti acceso, ma i pareri sembrano in questo momento abbastanza concordi. Dal mondo della cooperazione giungono valutazioni positive a patto che la legge riesca ad ampliare quanto finora fatto dalle cooperative. Altri vedono per l’impresa sociale un ruolo di primo piano soprattutto in ambito educativo, sanitario e assistenziale. Per Giorgio Vittadini della Compagnia delle Opere “le strutture non profit sono in grado di assicurare una concorrenza benefica ai soggetti statali e di garantire cure, assistenza e prestazioni mediche a disabili e malati che il servizio sanitario nazionale non è più in grado di sostenere”. Il trend appare comunque significativo anche a livello europeo, dove le stime parlano di circa 900 mila imprese appartenenti all’area dell’economia sociale che muovono un dieci per cento della forza lavoro, e l’allargamento della Ue darà spazio a molte realtà che si sono trasformate o sviluppate nei paesi ex-comunisti. Già adesso non si può parlare solo di una nicchia di mercato e, se le aspettative che si apriranno con la futura legge saranno rispettate, potremo assistere a un’evoluzione significativa che inciderà nella stessa struttura e nelle funzioni dello stato sociale. Economia sociale e gratuita Ne parliamo con Luigino Bruni, docente nella facoltà di economia nell’Università di Milano-Bicocca. C’è un legame fra economia sociale e gratuità? “Partirei da un fatto, un esperimento realizzato in dieci asili nido a Haifa, in Israele. I genitori, come sovente accade, arrivavano dopo la chiusura a riprendere i loro bambini e così la direzione decise diintrodurre una multa, pensando di ridurre i ritardi. Ma il risultato fu diverso, i ritardi aumentarono del 40 per cento. Infatti i genitori ragionavano più o meno così: le maestre fino alle quattro del pomeriggio fanno il loro normale lavoro, naturalmente retribuito. Se faccio ritardo, loro mi aspettano e non abbandonano il bambino, sulla base di un altro principio, la gratuità “. Si sarebbe potuto togliere la multa. “E in effetti è quello che si fece, ma il ritardo medio non diminuì. L’interpretazione di questo fatto può essere semplice: una volta che la gratuità diventa contratto resta contratto per sempre”. Possiamo trarre qualche indicazione generale da fatti come questo? “Credo di sì. Intanto la gratuità non ha buoni sostituti. A questo proposito nel 1970 il sociologo inglese Titmuss aveva dimostrato che il sistema inglese delle donazioni di sangue su base volontaria era più efficiente di quello americano in cui il sangue veniva pagato da aziende for profit. Infatti l’introduzione di un prezzo per il sangue ne aveva ridotto la qualità. Inoltre la gratuità funziona meglio in molti servizi relazionali e poi non posso accrescerne l’offerta tramite incentivi di mercato. Alcuni studi mostrano che mentre il ragazzino pagato per ogni lavoretto non fa più nulla gratis, doni monetari una tantum rafforzano la gratuità”. Si può parlare di gratuità anche nella normale vita delle imprese? “Un elemento più generale da considerare è che si sta già sviluppando e soprattutto si svilupperà nei prossimi anni la responsabilità sociale delle imprese con strumenti ad hoc come la social accountability (SA 9000) e il bilancio sociale. Altrimenti i consumatori le penalizzano non acquistando o boicottando i loro prodotti. Si tratta di un’evoluzione che riguarda tutte le imprese”. E allora dov’è lo specifico dell’economia sociale? “Secondo me è proprio nel principio di gratuità che va protetta e potenziata in diversi modi: valorizzando i lavoratori volontari, dando posto a soggetti svantaggiati, cercando di rimanere sociale, pur diventando sempre più impresa. Per questo il solo vincolo della non distribuzione degli utili, come previsto nel disegno di legge sulle imprese sociali, è da una parte troppo esigente, perché allora l’economia di comunione o la banca etica non potrebbero essere considerate imprese sociali. Per altri versi è troppo poco: “Posso non distribuire utili ma andare in giro col macchinone aziendale e permettermi mille forme di benefits”, mi diceva tempo fa un dirigente di una cooperativa sociale. La cultura aziendale di gratuità deve tradursi in buone pratiche che investono la quotidianità dell’impresa”.

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