Il tempo dell’attesa

Per fare un uomo servono nove mesi, per ucciderlo un giorno. Recuperare una dimensione temporale alternativa alla fretta passa anche attraverso il corpo e la vita delle donne
Maternità

Il titolo mi aveva intrigato, così, giovane liceale, mi ero imbattuta ne La condizione umana di Malraux. Un testo duro, in cui l’assurdo dilaga e i protagonisti non trovano risposte all’interrogativo politico che si pongono finché esso non diventa, di necessità, drammatica scelta privata, che sfocia nell’inutilità di un atto terroristico. Non ho mai dimenticato l’espressione dell’autore, sempre tragicamente attuale: «Occorrono nove mesi per fare un uomo e un solo giorno per ucciderlo».

L’ho trovata citata di recente: «Si sarebbe tentati di riconoscere in questa frase il suggerimento di due temporalità. Una è quella degli eventi nel presente immediato, dove la decisione è posta nell’istante e dove l’atto s’iscrive in un mondo di azione senza indugio. Temporalità che è in affinità con la mascolinità e che comporta la terribile efficacia, secondo Malraux, di poter tagliare il filo di una vita, nell’istante di un gesto omicida. Al contrario, la temporalità femminile costruisce nella pazienza del tempo, edifica la vita e la storia al ritmo lento di una crescita interiore. È esemplarmente quella dell’attesa che caratterizza la tessitura della gestazione».

Si tratta di un passaggio del bellissimo e denso intervento di Anne Marie Pelletier alla terza sessione del “Seminario verso una Teologia intrinsecamente femminile”, intitolato “Fruits”. Frutti balzati in evidenza, originali e saporosi, dalle varie relazioni di teologhe e, questa volta, anche teologi, venuti dai diversi continenti.

Fecondità, dunque. Termine che di per sé rinvia «al rapporto che le donne intrattengono con la vita, attraverso il loro corpo che ne accoglie un altro e lo fa crescere nella maternità». Realtà, quella della maternità, inquadrata nel corso dei secoli in una prospettiva prevalentemente maschile, e alla quale la Bibbia, pur non distaccandosi dalle culture del suo tempo, restituisce una dimensione d’interiorità ignorata dal paganesimo.

Nel secondo libro dei Maccabei, la madre dei sette fratelli li esorta a non rinnegare la legge divina e «invoca la potenza di Dio capace di ridare loro la vita al di là della morte, ricordando il modo in cui hanno preso forma nella sua carne: “Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi” (7, 22). Così il mistero della vita trasmessa e ricevuta non è espresso qui dalla fantasia maschile, ma suggerito come un enigma che si sottrae alla donna stessa e che questa può nominare rinviando al segreto della vita di Dio».

Ma in altri passi sono uomini ad esprimere sentimenti analoghi: «sei tu che hai formato le mie reni, che mi hai intessuto nel seno di mia madre» (Salmo 139). La stessa allusione a una tessitura di vita si ritrova sulla bocca di Giobbe (10, 11). L’espressione… contiene un prezioso suggerimento. Tessere, in effetti, è… un gesto laborioso, fedelmente ed efficacemente ripetitivo, che si compie nel tempo. E che manifesta la fecondità della pazienza del tempo, quando appare nella sua compiutezza il disegno di un tessuto o la solidità di una tela. Lo stesso vale per l’umano generato dal lavoro nascosto, invisibile ma attivamente fecondo, che si opera nel ventre materno.

E, al di là dell’esperienza fisica della maternità, per istinto «le donne sanno che la vita ha come condizione il consenso all’attesa, che la fecondità vuole la pazienza che permette la maturazione. Ci si ricorderà così di come, nella storia degli inizi dell’Europa cristiana – mentre alcuni sovrani battezzavano in tutta fretta eserciti e intere popolazioni – furono delle donne a ricordare la necessità di rispettare le scadenze di una vera evangelizzazione».

C’è un profondo divario tra questo ritmo del tempo e quell’accelerazione aumentata in maniera esponenziale ai giorni nostri, che sta modificando in profondità il rapporto di ognuno di noi con se stesso e con gli altri, trascinandoci in un vortice di instabilità, di scadenze pressanti «Il sociologo Hartmunt Rosa – sono ancora parole della Pelletier – si dichiara pessimista nella sua ricerca di pratiche di decelerazione che possano salvarci dalle esaltazioni suicide della cultura contemporanea. Forse sarebbe meno disincantato se si ricordasse che la parte femminile della nostra umanità custodisce, per sé e per tutti, questo segreto vitale di un tempo diverso da quello che le nostre tecniche strumentalizzano. Occorrono nove mesi per fare un uomo. Questa banalità antropologica, che resiste in un’epoca di discutibili manipolazioni della procreazione o della pratica delle madri surrogate, resta un baluardo a protezione della nostra umanità».

Ma il recupero di una dimensione temporale alternativa alla fretta segna vari percorsi di vita e riflessione, come, ad esempio, il cammino dello Slow portato avanti da uomini e donne insieme, con fatica e con tenacia: Slow Food, Slow Tech, Slow News... È in gioco la creatività, nella ricerca di qualità, di alternative alle leggi di mercato spietate e devastanti, nell’affermazione di una dimensione “comunitaria”, con i suoi tempi di ascolto e di elaborazione di progetti, esperienze, stili di vita, ben lontani dalla comunicazione istantanea, spesso senza memoria né futuro, se non virtuale. Mi piace concludere con le parole di Antonella Viola, scienziata di fama internazionale, a proposito della Slow Science: «Rivendichiamo il diritto a giocare, a prenderci tutto il tempo che ci serve… a sbagliare, confrontarci e ammettere di aver sbagliato, rivendichiamo il diritto alla lentezza, a una scienza accurata, libera da pressioni e svincolata dal mercato».

 

 

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