Il Requiem di Mozart

L’Introitus è di una tristezza gonfia di lacrime, che si insinua nell’ascoltatore e vi resta, indimenticabile.
Antonio Pappano

L’Introitus è di una tristezza gonfia di lacrime, che si insinua nell’ascoltatore e vi resta, indimenticabile. Quante volte lo si è udito il Requiem, dall’intimità di una chiesa salisburghese con un grappolo di orchestra e coro, alla sontuosità di un von Karajan. Qui, Antonio Pappano scandisce un tempo singhiozzante eppur sostenuto, mentre il coro canta come in un sospiro. Quanto è di Mozart nel Requiem incompiuto per la morte? Poco: il molto è stato rielaborato dagli allievi. Ma lo spirito resta mozartiano. Quella contemplazione nobilissima del dolore, lo struggimento dell’ultimo Amadeus che scrive per sé stesso l’assolo del trombone nel Tuba myrum, la fatica di accettare la morte nel Lacrymosa, l’anelante corsa dell’Offertorio, il terrore del Dies irae. A differenza di Verdi, Mozart non lotta con Dio. Avendo visto e vissuto tutto, chiude con una semplicità disarmante la meditazione sull’ultimo istante. L’orchestra, fatta di impasti puri come le voci – brilla il contralto Marianna Pizzolato –, fa del dramma un canto dolente e casto che Pappano sottolinea con una direzione chiara in ogni passaggio degli ottoni e degli archi, in un’armonia che è vita anche di fronte alla morte.

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