Il prezzo della solitudine

È il giorno dell’Ashura, festa di sangue, la grande ricorrenza in cui gli sciiti celebrano il martirio di Hussein, nipote di Maometto, che nel 680, proprio a Karbala, venne raggiunto e trucidato dal califfo Yazid. Dopo la morte del profeta era iniziata la grande faida fra i suoi seguaci per la successione e già si era prodotto il primo scisma che tutt’oggi divide l’islam fra sunniti e sciiti. Proprio lì dove ebbe inizio, si può dire che ancora sanguina la grande ferita. E non è una metafora. La folla è oceanica, ebbra nel rito dell’autoflagellazione. Con coltelli, chiodi, sassi appuntiti molti fedeli si procurano ferite in una sorta di esaltazione mistica. Ma sull’immensa folla incombe ben altro pericolo: i kamikaze sono pronti a colpire. C’era da aspettarselo, ma poco o nulla si può fare per sventare gli attacchi. Nel caos è diventato impossibile individuare chi, votato alla morte, si farà esplodere dove più densa è la calca. Alcuni gruppi vengono arrestati, altri riescono nell’intento. Settanta sono i morti a Baghdad, centododici quelli a Karbala; seicento i feriti raccolti. È la strage più devastante dalla fine dichiarata della guerra. L’ennesima di una interminabile lista che ogni giorno si allunga e dice che il conflitto non è finito e neppure, per ora, è arrestabile. Forse si può capire oggi perché alle armate vincitrici della prima guerra nel Golfo venne impedito di completare quella che avrebbe potuto essere una marcia trionfale su Baghdad. Bush padre seppe ascoltare allora i consiglieri più prudenti. Col senno di poi si direbbe che ebbe ragione; così come diventa più facile giudicare negativamente oggi l’irruenza di Bush figlio che ha gettato l’America in questa avventura. Nonostante lo choc delle Torri Gemelle e il quasi unanime consenso avuto dall’opinione pubblica del suo paese per chiudere la partita con il terrorismo, oggi si valutano molto diversamente le ragioni di una prudenza che non ci fu. E la lista dei morti che si allunga ogni giorno – uno stillicidio inarrestabile quello dei soldati americani, un torrente quello dei civili iracheni – finirà probabilmente per costare allo stesso Bush la vittoria che già pareva scontata alle prossime presidenziali. Dopo gli attentati, i rappresentanti sciiti nel Consiglio di governo, che già avevano trovato un accordo con gli altri gruppi per firmare la Costituzione provvisoria, hanno fatto rinviare la cerimonia. Ma la posta in gioco è troppo alta.Vince il buon senso e, finalmente, viene approvata la Legge fondamentale che andrà in vigore il 30 giugno. L’Iraq ha dunque la sua Costituzione provvisoria, che prefigura il paese di domani. Si tratta di una legge ancora imperfetta, ma che già rappresenta nell’opinione di noi occidentali un grande passo avanti. Basti pensare che l’islam viene riconosciuto come religione ufficiale di stato, ma non come fonte della legislazione; per cui i precetti religiosi non potranno invalidare i diritti della persona né mutare le regole della democrazia. Queste premesse non significano tuttavia che da domani tutto funzionerà. Le rivalità riemergeranno presto. Purtroppo questa appare soprattutto una costituzione imposta da fuori; come confermano già le prese di distanza dei massimi leader sciiti. Si è trattato comunque di un passo obbligato senza il quale sarebbe stato impossibile procedere sulla via della tanto attesa normalizzazione. Gli americani vedono finalmente allontanarsi lo spettro di un rinvio delle elezioni e, con quelle, riproporsi la possibilità di passare la mano all’Onu.Anche gli alleati che hanno mandato truppe in Iraq non aspettano di meglio. A troppo caro prezzo è stata pagata la precipitosità con cui si è voluto iniziare questa guerra. E, per gli americani, l’avere voluto egemonizzare l’operazione per poterne trarre, a guerra finita, il massimo profitto. Una solitudine, la loro, che ha mostrato tutta la sua ripercussione a livello internazionale proprio quando più ci sarebbe stato bisogno di solidarietà e di coesione per non approfondire il fossato, ma intavolare un dialogo costruttivo col mondo islamico. Se vogliamo cogliere almeno un risvolto positivo nella grande iattura che pur sempre questa guerra rappresenta è che essa mette a nudo la verità. Occidente e islam mostrano entrambi le proprie profonde contraddizioni. In superficie i due mondi sembrano condannati ad una totale reciproca incomprensione, e avviarsi verso uno scontro frontale. Al fondo covano entrambi il malessere di una umanità fatta oggetto e non soggetto, immolata sull’altare di oscuri interessi di parte. Forse è già troppo presumere di capire gli errori di chi abbiamo finora combattuto. Più facile individuare i nostri, noi pure divisi come sciiti e sunniti, fieri delle nostre reciproche incompatibilità. Condannati a pagare il prezzo di quella solitudine in cui ci relega il nostro rifiuto del dialogo.

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