Il prete e l’ammiraglio

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Io ritengo che perdonare sia difficile, ma è più facile quando si sa che dall’altra parte c’è qualcuno che non sa cosa ha fatto, perché sono convinto che questo signore non lo sa ancora oggi. È cambiato molto nella mia vita, ma non i miei sentimenti verso il popolo rumeno. A confidarci quello che vive a quattro mesi dall’uccisione della moglie, è l’Ammiraglio Giovanni Gumiero. Lo ricordiamo ancora oggi, il caso della signora Reggiani, morta il primo novembre scorso, in seguito alle ferite riportate durante un’aggressione da parte di un rumeno a Tor di Quinto, a Roma. Un’occasione che portò anche a riflettere sui rapporti fra due Paesi che hanno una lunga storia fatta di tante collaborazioni. Come questa che ci apprestiamo a raccontarvi. Torniamo dunque indietro nel tempo, prima di ridare la parola all’Ammiraglio. Andiamo nella Romania del dopo Ceausescu, coi suoi strascichi di odio e morte. Era la prima volta che le navi della Nato entravano nel Mar Nero, da quando era caduto il muro di Berlino, si cercavano le fosse comuni delle persone uccise sotto la dittatura, ci racconta mons. Antonio Vigo, uno che in Marina ha trascorso la vita tra Golfo Persico, Kosovo, Timor est e quant’altro, sempre in trincea, fino ai più alti gradi. Si raccoglieva anche un’altra drammatica eredità: Tanti bambini sieropositivi, tutti quelli che in quegli anni avevano avuto bisogno di trasfusioni, rimasti vittime dello scambio che Ceausescu aveva fatto tra sangue infetto proveniente dall’Africa contro derrate alimentari . Vivevano in orfanotrofi, anche quando avevano i genitori. I nostri militari, di stanza a Costanza, vengono a conoscenza di uno di questi istituti, la Casa de copii (cioè dei bambini) n° 2, e, con la generosità che in genere li contraddistingue, fanno di tutto per i bambini che vi sono alloggiati. Io credo che quando siamo andati via da Costanza, se si fosse rigirato l’equipaggio a testa in giù, non sarebbe uscita una lira – racconta il prete-generale -. Abbiamo svaligiato un supermercato, acquistando ogni genere di roba. E nonostante per correttezza avessimo avvisato che si trattava anche di bambini sieropositivi, tutti han voluto andare a dare una mano per rimettere a nuovo l’edificio. Non ci è più bastato il pullman messo a disposizione per raggiungere l’orfanotrofio, c’è voluta una lunga fila di taxi. Rimaneva solo chi doveva stare di guardia. Così, vista la nostra disponibilità, la municipalità di Costanza ci ha chiesto se ce la sentivamo di assumerci l’impegno di portare avanti un orfanotrofio. Dalla risposta positiva scaturisce una collaborazione con risvolti vari. Tutte le navi che vanno nel Mar Nero, da quel momento, han- no l’obbligo morale di continuare la collaborazione intrapresa. Per non dire che c’è pure chi adotta dei bambini rumeni. Nel frattempo mons. Vigo si trasferisce a Roma come ispettore delle Forze armate e segue gli sviluppi come può. Di certo rimane sorpreso quando un giorno un ispettore americano gli porta da Costanza un documento. Parla dell’orfanotrofio in questione e dice che, da quando una delle navi italiane della Marina militare vi si è recata in visita, tutto si è messo in funzione, la vita dei bambini si è trasformata radicalmente. E poiché promotore di tutto ciò era stato un uomo di grande carattere, di una modestia eccezionale, di una generosità senza pari, che ha donato tutto sé stesso per poter aiutare i bambini oppressi dalla sorte, il ministero dell’Educazione aveva deciso che la Casa dei bambini n° 2, si sarebbe chiamata Casa Antonio, come mons. Vigo appunto. In un mondo ortodosso, dare il nome di un prete cattolico, per di più militare, era il massimo , commenta l’intervistato. Quest’orfanotrofio lui lo porterà in cuore a vita. Tanto che, giunto a nuova destinazione in un paesino della Lunigiana, si inventa un calendario che ha per protagonisti gli anziani e i bambini del posto, i cadetti dell’Accademia navale di Livorno, tutti a bordo della mitica Vespucci. Il ricavato della ven- dita di questi calendari andrà a Costanza perché nessun bambino appartiene ai suoi genitori ma all’umanità, ed ogni uomo rimane il bambino che è stato, vi si legge. Alla Casa de copii 2 si reca in visita nel ’95 anche l’attuale Comandante delle Forze di Contromisure Mine, Giovanni Gumiero. Fu per me un’esperienza toccante perché si vedevano questi bambini sistemati in grandi cameroni con lettini costruiti con tavole di legno, dei pagliericci piccolissimi. Mi rimase impresso un bambino di tre anni. Ero in divisa, lo presi in braccio: non si voleva più staccare. Ricordo ancora lo sguardo, gli occhi che mi fissavano. In quell’istituto torna nel 2002. Trovai una realtà trasformata, una struttura ben tenuta, i bambini curati bene. Sembrava si trattasse di un altro orfanotrofio, ma in effetti era lo stesso. Portammo i bambini a bordo della nostra nave a pranzo, un’esperienza meravigliosa. Sembrava finita lì. Ma in effetti non fu così. Perché nel frattempo, a fine ottobre scorso, arriva la tragedia. E qui si intrecciano le vicende dell’orfanotrofio, di mons. Vigo e dell’Ammiraglio, amici fra di loro. E qui torniamo all’inizio dell’articolo: la cronaca cede il posto all’ascolto. Perché chi scrive ha avuto il singolare privilegio di incontrare personalmente Giovanni Gumiero, uomo di grande statura fisica e morale. Era da poco successa la tragedia di mia moglie e una sera mi ha telefonato mons. Vigo dicendomi: Ti voglio parlare. È venuto, abbiamo fatto una passeggiata sul lungomare di La Spezia e mi ha raccontato la sua iniziativa. L’ho lasciato parlare.Mi ha chiesto di consegnare la prima copia di questo calendario ad una bimba rumena. Inizialmente ho avuto qualche ripensamento, glielo posso garantire; poi però, spinto anche da mia suocera che mi ha detto: Questa è una cosa che ti può solo far del bene, ho accettato. E a questo punto si passa ai ricordi familiari. Come mia suocera è una donna di grande fede che le fa affrontare con una serenità estrema questa vicenda, così era anche mia moglie, presa dalla sua nuova esperienza con la comunità valdese, all’interno della quale si era dedicata ai bambini come catechista (e da mons. Vigo sappiamo che lavorava anche con piccoli rom – ndr). Una fede che forse era più decisa di quella che ho io, anche perché ci sono degli scalpelli che incidono forte. Ho accettato questa proposta di don Antonio perché mi sembrava così di far qualcosa di buono, che potesse aiutare qualcuno e soprattutto essere un segno. È stato difficile perché io sono una persona schiva, non è che abbia piacere a farmi vedere in giro; e così era anche mia moglie, non le piaceva il rumore. Quando ho detto sì a don Antonio, l’immagine che avevo era quella di quel bambino in braccio che non si voleva staccare da me. Andando avanti nell’incontro, veniamo a sapere che prima di arrivare a La Spezia, fino a settembre scorso, l’Ammiraglio si occupava a Roma di relazioni internazionali: In Romania sono stato tante volte per le attività di cooperazione che la Difesa italiana ha con quel Paese; lì ho dei buoni, carissimi amici che continuano ad essere tali. L’ultimo dono che l’Ammiraglio ci fa è il biglietto in ricordo della moglie. Vi troviamo un pensiero di I. P. Cavalié. Perdonare non vuol dire cancelliamo tutto, come se nulla fosse stato. Ma fare in modo che colui o colei che fa il male non ne sia più schiavo. Vuol dire aiutarlo a liberarsi del male che fa, e camminare sulla via dell’amore autentico. In ultima analisi, vuol dire aprirlo alla speranza di un qualcos’altro possibile, di un futuro pieno di sole, che libera dalla notte del peccato.

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