Il petalo nel pozzo

Non ricordo chi disse che il rumore che fa la poesia è pari a quello di un petalo di rosa che cade in fondo a un pozzo. Immagine lirica ma anche ironica, perché gli altri rumori strepitano e spariscono in abissi di oblio ben più profondi di un pozzo, ma questo nonrumore, come la voce sottile di silenzio udita da Elia sull’Oreb (1Re 19, la traduzione corrente è imprecisa) dura e manifesta, ora più ora meno, ma sempre irriducibilmente, la sua origine nello spirito, ben al di sopra delle mode. Sono lieto perciò di proporre due voci femminili di poesia appartata e non clamorosa, come dev’essere se vuole sopravvivere ai rumori. La genovese Margherita Faustini ha un lungo tenace e limpido rapporto con la poesia, alla quale si è sempre accostata con onestà d’anima prima ancora che di coscienza letteraria, e si sente: il nutrimento che ne sa trarre e da cui prendono forma i suoi versi non ha traccia di veleno ideologico, nichilistico e neppure retorico, un miracolo in questi tempi. Poesia onesta verrebbe da dire con Saba, scoprendo che il fondo oro, tutto dissimulato, delle sue parole, è la povertà davanti a Dio, la povertà stessa delle parole: che solo così, povere, risplendono. Quale poeta, dedicherebbe tutto un libretto di liriche alla madre scomparsa? Nessuno, credo, ma lei lo fa e riesce a non risultare né ripetitiva né patetica né sentimentale – in questa plaquette di sentimenti al vivo, al sangue -; la castità dei suoi ricorda gli esempi supremi di versi alla madre nel Novecento italiano, Ungaretti e Quasimodo, e li ricorda indipendente da essi, originale per pienezza del proprio vissuto: Nessuno potrà strari- parti al mio futuro/ riflesso nella memoria del passato; M’aspetti sulla linea dell’Oltre, (…) in attesa di ricongiungerci/ nel tempo senza rintocchi . Sul difficile crinale tra dolore e sudore Margherita Faustini mostra il suo conquistato diritto di muoversi, di procedere ad invisibilia. Come in Il golfino sul braccio: Spuntasti tra il fitto degli alberi,/ il golfino sul braccio.// Lo allargasti sulle mie spalle/ a difendermi dall’insidiosa/ frescura del crepuscolo.// Senza voltarti,/ ti inoltrasti, guardinga,/ nella spalliera di abeti/ alta fino al cielo.// Ti chiamai invano.// Al mio risveglio/ ancora farfugliavo il tuo nome. Dalla Sicilia i versi di Vittoria Gigante comunicano una freschezza interiore insolita e un’esigenza spirituale che si fa urgenza espressiva, cronaca interiore distesa in un quotidiano voler rinnovarsi, con fatica indisponibile ad ogni resa. La poesia è per lei cammino e insieme interrogazione di sé e del mondo, senza falsa pietà, con una chiarezza di sguardo, distillata dalla fede cristiana, che la apparenta alla Faustini. Nicodemo, che qui riporto, ne è l’esempio fedele e più riuscito: Pensavo di dover tornare dal viaggio/ ed ho scoperto di non essere mai partita/ e che quello che avevo visto e fatto/ in realtà non lo avevo visto né fatto./ Era solo proiettato in un duplice schermo/ come in un film, grottesco/ la mia vita un copione/ rimasto abbandonato per caso/su un palcoscenico improvvisato./ La parte di protagonista/ – l’unica che mi avessero mai data -/ non era stata comunque la mia/ ma di un’attrice sconosciuta/ che si era fatto gioco di me/ prendendo il mio posto assegnato/ lasciato incautamente vuoto a mio danno./ Come riempire ormai quell’assenza?/ come arrivare in tempo per calarmi nella parte?/ come recuperare il passato non vissuto?/ come accettare ciò che non era stato?/ Vano rimuovere cancellare correggere/ tentare di dimenticare la vita:/ la coppa non sarebbe stata colma mai più./ Proprio qui sulla soglia della resa/ in precario equilibrio tra finzione e realtà/ Tu mi hai voluto dolcemente incontrare/ e come a Nicodemo un tempo/ mi hai rivelato che sorretta da Te/ mi era possibile rinascere di nuovo/ perché il vento soffia dove vuole/ e proprio nulla è impossibile a Te. Con la recentissima silloge antologica Quae inveni (Ciò che ho trovato) la poetessa ripercorre poi la sua esperienza religiosa sul filo di una giusta sincerità (dico giusta nel senso biblico di conformata a Dio, sacra a lui), che non tace né l’esultanza né la pena, né il soffocato smarrimento né il dichiarato buio – dichiarato in ginocchio nella ferma, anche quando sgomenta, speranza. Con una onestà di ispirazione spirituale che la immette in quell’ampia e ricca corrente di poesia sacra femminile, a partire dall’alto nome di Vittoria Colonna, che vanta in età contemporanea le vive esperienze poetiche di Vittoria Aganoor Pompilj, di Antonia Pozzi, di Margherita Guidacci, di Cristina Campo, fino alla vivente e attiva Maura Del Serra.

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