Il genio della riconciliazione

Schizzi da un mondo che riserva sorprese e conferme. Dove la società non s’è avvitata sulle vendette, dopo la fine dell’“apartheid”.
Ragazzi in una scuola a Cedara

La strada serpeggia seguendo i rilievi delle colline. I monti si perdono in distanza, con sfumature di colori, nelle foschie del mattino. Ho appena lasciato Durban, la città che ha eclissato tutte le sue rivali dell’Africa subsahariana per diventare il più grande porto del subcontinente. A mano a mano che ci avviciniamo a Pietermaritzburg, le auto si diradano e aumenta la gente che cammina a piedi. Mucche e capre brucano liberamente ai bordi delle strade. Attorno alle pompe dell’acqua le ragazze in fila riempiono le taniche, altri si lavano. Una dopo l’altra si amalgamano caoticamente case di fango, di cartoni, in cemento, belle villette…

 

Figli dell’impero britannico

 

Continuiamo a salire addentrandoci sempre più a Ovest. I boschi di pini e abeti si alternano a quelli di eucalipti, le terre da pascolo alle fattorie. Sylvester, che mi accompagna in questo viaggio, mi indica il luogo da dove proviene la sua famiglia. Gli antenati arrivarono a metà Ottocento dall’India, portati a Durban dall’impero britannico per coltivare la canna da zucchero. Il nonno lavorava nella fattoria di una famiglia italiana, i Piccioni. Allevava in proprio cavalli. Una volta ne caricò dieci sul treno per venderli a Durban. Il treno deragliò e tutti i cavalli vennero uccisi. Il babbo di Sylvester non aveva ancora sette anni quando la famiglia si trasferì a Pietermaritzburg. Presto i genitori morirono e il bambino si ritrovò con una zia a Durban. L’apartheid divenne legge nel 1948 e gradatamente il governo iniziò a separare le zone dove avrebbero dovuto abitare distinti bianchi, meticci, indiani e neri. Sylvester aveva due anni quando, nel 1955, la famiglia fu obbligata a lasciare la casa e ad andare a vivere nell’area riservata agli indiani: scuole, autobus, cinema… Tutto ben separato dagli altri gruppi.

Un giorno, a 17 anni, Sylvester entrò nella cattedrale. Era bianco il prete che parlava. Ne rimase affascinato. Pensava fosse un europeo. Quando venne a sapere che era un sudafricano stentò a crederci. «Ci sono anche dei sudafricani bianchi diversi! Sarà dunque possibile una convivenza tra gruppi differenti?».

 

Il villaggio zulu

 

Lasciamo l’autostrada, continuando verso Sterkfontein Dam Nature Reserve. Lo scenario gradatamente cambia: sempre meno boschi, sempre più savana e pascoli. All’orizzonte si delinea uno spazioso anfiteatro di montagne. Sulla sinistra i picchi oltre i tremila metri che proteggono il piccolo Stato del Basutholand. Lungo la strada scorgiamo un piccolo villaggio zulu. Ci inoltriamo a piedi tra l’erba alta. All’entrata ci accoglie una bella signora; spessi calzini colorati spuntano dall’abito lungo, in testa un foulard: splendida matrona. Quando sa che sono italiano, di Roma, si mostra sorpresa, mi fa cenno di entrare e chiama i suoi bambini per una foto. Cammino tra le case di fango costruite e rifinite alla perfezione, con ordinate linee geometriche sulle pareti, i tetti di paglia compatta… Donne e bambini si fanno attorno. Fa freddo ma un sole splendente rende tutto più bello. Il villaggio segue la Chiesa africana indipendente, una delle più potenti in Sudafrica, dove il cristianesimo convive con le credenze tradizionali. Mostrano un grande rispetto per i cattolici, mi chiedono una breve preghiera e qualche soldo per il vestito di una bambina.

 

Siamo a 1700 metri quando lasciamo la provincia KwaZulu-Natal ed entriamo nel Free State, l’antico Orange Free State fondato dagli afrikaans nel 1800. «Free State?», esclama Sylvester sorridendo. A lui, di origine indiana, così come alla popolazione nera, era consentito soltanto di passare attraverso l’autostrada, senza potersi fermare né tanto meno abitarvi. «Sono stato in carcere 15 giorni, quando ero studente, perché avevo difeso due dei nostri professori messi in prigione per questioni razziali. Pensavamo che l’apartheid sarebbe finita in un bagno di sangue e invece… Dobbiamo ringraziare la buona volontà dell’ultimo governo razzista guidato da De Klerk, assieme a Nelson Mandela e alla Chiesa. Quando nel 1994, per la prima volta potei votare nel nuovo Sudafrica libero, piansi di gioia. Finalmente ero riconosciuto come cittadino nel Paese mio e dei miei padri. Avevo 41 anni».

 

Storie di diamanti

 

Siamo ormai nel Golden Gate Highlands National Park. Impieghiamo due ore per percorrere i poco più di 30 chilometri di deserta strada serpentina che lo attraversa. A ogni svolta dobbiamo fermarci, incantati da sempre nuove montagne, nuovi picchi, nuove scene che lasciano senza fiato. «Guarda cosa ha fatto il Padre per noi!», continua a ripetermi Sylvester, che ha percorso tante volte la strada senza che la meraviglia gli venisse mai meno. È notte quando giungiamo a Bloemfontein, la città posta al centro del Paese.

La mattina seguente riparto per Kimberley. Nel 1866, nelle fattorie della zona fu trovato il primo diamante, poi un secondo, poi un terzo. Iniziò la corsa ai diamanti e nacque la città di Kimberley. 180 chilometri su una strada quasi desertica. La savana è più selvaggia di quella che mi ha portato fin qui. Rade fattorie sono disseminate qua e là. Branchi di struzzi pascolano tra l’erba alta. Quando vedo un maschio isolato chiedo di poterci fermare. Mi avvicino alla rete che corre lungo la strada e lo struzzo si avvicina curioso col suo passo dondolante. È più alto di me! Quando mi raggiunge inizia a danzare, gonfia le penne, si trasforma in un bellissimo animale.

 

«Con la fine dell’apartheid – domando a Sylvester –, il Sudafrica è davvero cambiato?». «Assolutamente! Il Paese ha i suoi problemi, ma politicamente è diventato il più stabile di tutta l’Africa ed è sempre più forte economicamente. I giovani, a qualsiasi gruppo originario appartengano, studiano e crescono insieme e hanno sempre più coscienza di essere un’unica nazione. Io rimango indiano, con i miei gusti e la mia cultura, un altro rimane con ascendenza zulu e un altro inglese, ma proprio qui sta la ricchezza del nostro Paese. Qui vivono persone provenienti da tutti i Paese europei, da quelli mediorientali, africani e asiatici. Le sofferenze e le lotte razziali del passato ci hanno insegnato a convivere insieme».

 

Sopportare l’apartheid

 

Mi rivolgo al nuovo compagno di viaggio che si è aggiunto a noi, un sudafricano bianco. «Da dove proviene la tua famiglia?». «Non lo so. Sono un bianco e quindi la mia famiglia dovrebbe essere arrivata dall’Europa, forse nel 1820, ma non ho mai indagato: sono semplicemente un sudafricano. Comunque non potevo sopportare l’apartheid, soffrivo troppo per la gente di colore e volevo fare qualcosa per loro; per questo mi sono buttato a capofitto nel sociale». «Ora che l’apartheid è finita – gli domando provocatoriamente –, non hai più problemi». Rex è meno ottimista di Sylvester: «Le tensioni culturali rimangono. Comunque oggi sono altre le urgenze. La prima è il bisogno di rapporti tra la gente: in famiglia, nelle parrocchie, tra differenti gruppi sociali. L’altra è rispondere allo stress che le persone di colore stanno vivendo. Dopo essere state emarginate per tanto tempo, si trovano a dover guidare una nazione e a inserirsi nel mondo occidentale, scontrandosi con una mentalità che non è la loro e questo genera tante tensioni».

 

Da Kimberley a Johannesburg, questa volta da solo, in autobus, nonostante ne venga sconsigliato. «Meglio l’aereo – mi dicono –, la violenza qui è ancora purtroppo di casa», ma costa molto meno e mi consente di continuare ad ammirare il paesaggio. Se Kimberley è nata attorno alle miniere di diamanti, Johannesburg è nata attorno a quelle dell’oro prima e poi del carbone. Oggi è il polo industriale del Sudafrica, con i grattacieli e il traffico intenso di ogni grande città. Proprio per questo non mi attira. Visito piuttosto la città alternativa, la famosa Soweto (South West Township).

 

L’apartheid passata

 

Negli anni Cinquanta, quando l’apartheid entrò in vigore, tutti gli abitanti neri di Johannesburg dovettero lasciare la città, riservata ai bianchi, e furono trasferiti in questa zona che diventò più grande della città stessa: due milioni di abitanti. Anche oggi che l’apartheid è stata abolita non è semplice per un bianco come me entrare in questa giungla di case. Mi faccio accompagnare da un prete nero, tarchiato e dalla faccia dura che si distende subito appena sorride, il parroco della famosa parrocchia Regina mundi, che negli anni della rivolta nera divenne il punto di riferimento della resistenza, come anche degli assalti della polizia.

I missionari che lavoravano a Soweto, per la maggior parte bianchi, in quell’area non potevano vivere, riservata com’era alla popolazione nera. Costruirono una casa appena fuori dal quartiere, dalla quale al mattino partivano per andare nelle parrocchie.

 

A Pretoria, il museo dei Voortrekker racconta l’epopea – e la tragedia – dei boeri, gli afrikaans, i discendenti dei contadini olandesi impiantati a Città del Capo agli inizi del 1600, combattuti dagli inglesi e costretti ad abbandonare le loro case per avventurarsi qua al Nord. Il Museo dell’apartheid di Johannesburg racconta invece il martirio del popolo nero oppresso da quegli afrikaans, a loro volta oppressi. Ogni popolo ha le sue tragedie. Occorrerebbe raccontarle in sinossi le une con le altre; ognuno, di volta in volta, apparirebbe oppresso e oppressore. Come rompere la spirale dell’odio e della violenza?

È stato necessario il genio politico di Nelson Mandela perché gli afrikaans non fossero cacciati, ancora una volta, dagli africani neri ora giunti al potere, ma integrati nel nuovo Sudafrica per la cui vitalità rimangono indispensabili. Si può rompere la spirale della violenza. La chiave mi sembra indicata nelle sette parole scolpite all’ingresso del Museo dell’apartheid, quasi pilastri del nuovo Sudafrica: democrazia, uguaglianza, riconciliazione, diversità, responsabilità, rispetto, libertà.

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