Il Dio degli eserciti

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Michael J. Williams era un giovane statunitense bene avviato col lavoro; lo aveva lasciato, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, per arruolarsi con i marines. Battezzato all’età di 10 anni, aveva rinnovato la propria adesione adulta alla North Phenix Baptist Church poco tempo prima di venire impiegato in Iraq. È caduto nella battaglia di Nassiriya il 26 marzo. Una storia, la sua, come altre, caratteristiche degli Usa del dopo Twin Towers. La reazione della madre è quella di una donna resa forte dalla propria fede, che ricorda che Dio rimane fedele ai suoi. È così che molte comunità, negli Stati Uniti, affrontano i lutti portati dalla guerra irachena: morti accettate, vite offerte con generosità per una guerra avvertita da molti, profondamente, come giusta. Nel contestare, allora, l’idea che la guerra irachena sia giusta, come in effetti contesto, bisogna tenere presente che si vanno a toccare questi sentimenti e queste dignità: il rispetto non deve mai venire meno. La chiesa di Williams appartiene ai Southern Baptists, aggregazione di comunità battiste. I Southerns annunciano lo svilupparsi di un movimento di risveglio spirituale fra i soldati: risultato anche, sono convinti, della presenza di un crescente numero di cristiani in posizioni di leadership, sia dentro l’esercito che nell’attività pubblica. La civil religion E in testa ai cristiani in posizioni di leadership troviamo proprio il presidente Bush, che nei suoi discorsi dopo l’11 settembre continua a riferirsi a Dio, dando alla guerra contro l’Iraq, e agli altri futuri interventi minacciati contro gli “stati canaglia”, la caratteristica di una missione divina. Il riferimento a Dio da parte dei presidenti statunitensi non è una novità. Se leggiamo i loro discorsi ufficiali e solenni, quelli di insediamento, ad esempio, o quelli con i quali si sono rivolti alla nazione in momenti particolari di crisi e di difficoltà, lo troviamo costantemente. È un riferimento, in certa misura, previsto istituzionalmente; il presidente infatti giura davanti al popolo e davanti a Dio: formula importante, perché sottolinea che il presidente risponde del proprio operato a una duplice autorità. E questo fatto può suggerirgli un surplus di prudenza e di moderazione, o può consentirgli di prendere decisioni che si avvalgono di una sorta di mandato divino. Ma a quale Dio si riferiscono i presidenti? Analizzando il primo discorso da capo della Casa Bianca di John Kennedy, Robert N. Bellah – il sociologo di Berkley che per trent’anni si è occupato di questo aspetto della vita nazionale statunitense – osserva che egli non ha fatto riferimento a Gesù Cristo, cioè alla sua specifica fede religiosa, perché essa riguarda il suo credo privato, che lo mette in relazione con la sua appartenenza ad una chiesa particolare; Kennedy si riferì soltanto al “concetto di Dio”, nel quale una grandissima parte degli statunitensi poteva riconoscersi, pur interpretandolo, ciascuno, nel modo della propria religione di appartenenza. Il che equivarrebbe, secondo alcuni, a svuotarlo di ogni contenuto; ma così pensando, non si comprende il grande valore rituale di questo riferimento a Dio, che compare in tutte le cerimonie nelle quali la nazione statunitense ribadisce la propria identità e la propria unità. I riti non sono semplici atti di propaganda: sono il ricordo, e l’attualizzazione – che richiede una nuova adesione – dell’evento originario che ha fatto nascere una comunità politica. Il principio della separazione fra chiesa e stato garantisce la libertà di appartenere a qualunque culto; ma il riferimento a Dio ribadisce che la dimensione politica statunitense si fonda su quella religiosa, riafferma l’origine e la natura religiosa degli Stati Uniti, nei termini con i quali essa è dichiarata nei primi, fondamentali documenti della loro storia: la nazione statunitense nasce per volontà divina ed è sul fondamento divino che essa poggia i propri princìpi, primo fra tutti, la libertà. Il riferimento a Dio da parte del presidente che si insedia costituisce la legittimazione religiosa della sua autorità politica e descrive l’ambito della “religione civile” statunitense, l’identità stessa del paese. Ma di quale Dio parlano i presidenti? Nessuno di loro – proprio come Kennedy -, in più di duecento anni di storia, ha nominato Gesù Cristo nel discorso inaugurale. Nell’insieme, emerge il quadro di un concetto di Dio parzialmente di ispirazione biblica, sintetizzata con influssi illuministi; non è dunque, propriamente, il Dio cristiano; come la “religione civile”, anche secondo Bellah non è, propriamente, cristianesimo, ma una creazione religioso- politica originale, specificamente statunitense. Sindrome imperiale L’attuale presidente Bush sembra avere impresso una svolta al tradizionale stile della “religione civile”. I suoi riferimenti religiosi si sono fatti molto più frequenti rispetto ai suoi predecessori, molto più marcatamente biblici; soprattutto, molto più sicuri di incarnare la volontà di Dio. Una sicurezza che colpisce, se la si paragona, non dico alla inquieta profondità di Abraham Lincoln, ma anche solo alle umane domande di L. B. Johnson, che, nel discorso col quale chiedeva al Congresso di votare a favore dei diritti dei neri, il 15 marzo 1965, ammoniva: “Dio non favorirà tutto quello che noi faremo. È invece nostro dovere intuire la sua volontà”. In Bush la prospettiva appare rovesciata: sembra che Dio sia con gli Stati Uniti per principio. Questo “rinforzo religioso” è un aspetto fondamentale della “sindrome imperiale” dell’attuale presidenza, la quale, nel suo modo di rivolgersi al mondo, sembra sintetizzare – ed è una cosa che fa paura – i tratti specifici degli antichi imperi: la nazione nasce per volontà di Dio e agisce sotto la sua ispirazione, per cui l’azione della nazione è l’azione di Dio sulla Terra; dentro i confini dell’impero ci sono la libertà, la luce e l’ordine, mentre al di fuori regnano il caos e il male; per entrare nella sfera del bene bisogna diventare come l’impero, sottomettendosi ad esso o adottando le sue leggi e i suoi costumi. La “sindrome imperiale” è già, purtroppo, una realtà, almeno in parte; e la sua logica è esattamente l’opposto di quella che cerca di costruire l’unità della famiglia umana attraverso il consenso e la collaborazione di tutti. Non è questa amministrazione che potrà, domani, riallacciare i rapporti col mondo. Negli Usa esistono, naturalmente, potenti risorse di democrazia, di libertà, di fede consapevolmente e criticamente vissuta, che possono arginare tale rischio. La Chiesa cattolica statunitense, in primo luogo, coerentemente allineata con Giovanni Paolo II, non ha mancato di far sentire la propria voce critica nei confronti dell’amministrazione Bush, pur vivendo direttamente, insieme a tutti gli statunitensi, la difficile situazione successiva agli attentati di New York e Washington. Un aiuto importante a riprendere la retta via potrebbe inoltre venire dall’Europa, il giorno in cui decidesse di abbandonare l’ignavia, di uscire dagli interessi particolaristici degli stati che la compongono per assumere un ruolo adulto negli affari del mondo, di superare un rapporto parassitario con gli Usa che lascia sempre a questi ultimi il peso maggiore nella soluzione dei problemi: salvo, poi, abbandonarli di fatto, lasciandoli soli con i loro nemici; e chi è solo, facilmente sbaglia. Non si sono viste, in Europa, dopo l’11 settembre, la consapevolezza e la determinazione che sarebbero state necessarie per affrontare – senza scatenare una guerra – la nuova situazione. La guerra giusta di Bush Ma dal mondo cristiano – protestante e cattolico – oltre a un atteggiamento decisamente critico nei confronti della “dottrina” presidenziale, sono giunti anche dei rinforzi a questo modo di considerare il rapporto fra gli Stati Uniti e l’Onnipotente, attraverso intellettuali che, anziché valutare le decisioni di Bush alla luce della dottrina, adeguano la dottrina alle decisioni già prese. Prendiamo i casi di Daniel Heimbach e Michael Novak. Heimbach è professore di etica al Southern Baptist Theological Seminary di Wake Forest (N. C.). Prima di dedicarsi all’insegnamento, ha lavorato nell’amministrazione di Bush senior e al Pentagono. Il nodo cruciale, per potere convincere le coscienze cristiane a sostenere Bush, è dimostrare che la guerra contro il terrorismo, nei termini con i quali Bush ha cominciato a combatterla con l’invasione dell’Iraq e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, rientra nei parametri della tradizionale dottrina cristiana della “guerra giusta”. La guerra giusta, ammette Heinbach, non può venire intrapresa per cambiare un governo. Per questo, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq consigliava Bush di non dire che l’obiettivo della guerra era il cambiamento di regime: da questo punto di vista, ammetteva, “stiamo camminando sul ghiaccio sottile”. “Noi ci sentiamo minacciati, ora – continua -, dal legame sospettato dell’Iraq con Al Qaida, ma la giustificazione morale per l’uso preventivo della forza contro l’Iraq, in mancanza di prove riguardo ai loro passi contro di noi, è l’applicazione dei termini della resa che accettarono 12 anni fa”. Dopo la sconfitta nella guerra del Golfo, Hussein avrebbe dovuto, in effetti, distruggere le armi vietate e dimostrare l’avvenuta distruzione. Dopo avere spiegato che Hussein non ha ottemperato alle condizioni stabilite allora dall’Onu, Heimbach conclude che, di conseguenza, “la causa della originaria guerra del Golfo si applica ancora”. In conclusione, la guerra contro l’Iraq è giusta perché è il proseguimento di una guerra giusta: quella del 1991. Se Heimbach parla a nome di una intera comunità, il cattolico Michael Novak parla, invece, soltanto a nome proprio, o di quell’American Enterprise Institut dal quale provengono alcune figure-chiave dell’amministrazione Bush. Nel suo Asymmetrical warfare & just war. A moral obbligation, Novak espone la medesima tesi di Heimbach, intendendo l’invasione dell’Iraq come il proseguimento della guerra del Golfo. Nel frattempo, spiega, è stata dichiarata un’altra guerra, contro gli Usa, attraverso gli attentati dell’11 settembre 2001; un nuovo tipo di guerra chiamata “guerra asimmetrica”, perché non dichiarata da un’autorità politica riconosciuta, perché il nemico non attacca con i mezzi tradizionali e non è riconoscibile. L’attacco all’Iraq si è reso necessario perché, da una parte, esistono dei gruppi terroristi pronti a colpire servendosi di armi – quali quelle batteriologiche e chimiche – condannate dalla comunità internazionale; dall’altra, esiste un regime – quello iracheno – che ha già usato tali armi in passato, e che ancora le possiede; a questo punto, sostiene Novak, “solo un uomo di stato imprudente o perfino avventato potrebbe confidare che queste due forze rimangano per sempre separate”. Da qui la necessità di intraprendere una “guerra preventiva”, per evitare tale incontro. Per dimostrare che anche la guerra preventiva è guerra giusta, Novak si rifà al Catechismo della Chiesa cattolica. È bene precisare che il Catechismo non parla più di “guerra giusta” ma di condizioni di legittimità, dal punto di vista etico, per un intervento armato: ed è cosa molto diversa. La Chiesa cattolica stabilisce che si possano prendere le armi, a scopo difensivo, solo quando esiste il pericolo attuale – non ipotetico – di un danno grave per un popolo; chiede che il male che si provoca con l’intervento armato sia minore di quello che si verificherebbe se non si intervenisse; chiede che vi sia una ragionevole certezza del successo dell’intervento. E il Catechismo sottolinea che prima di prendere le armi devono essere state tentate tutte le altre strade, che devono essersi rivelate impraticabili o inefficaci. Novak si guarda bene dall’esaminare con attenzione tutte queste condizioni; al contrario, di tutto il contenuto dottrinale del Catechismo, egli sottolinea soltanto il passo nel quale la responsabilità di prendere la decisione della guerra è attribuita ai responsabili politici, cioè a Bush; e poiché essi sono i soli ad avere tutte le informazioni (specialmente di intelligence) necessarie a valutare, noi cittadini dovremmo soltanto fidarci. Ma non ricorda, Novak, la grande lezione di Pio XII il quale, nel Radiomessaggio per il Natale del 1944, proprio mentre sceglieva la democrazia, sottolineava che essa non è solo fiducia reciproca, ma anche controllo e limitazione, da parte del popolo, nei confronti del potere politico, e proprio per impedire la guerra? Democrazia significa che le garanzie della pace sono messe dentro il popolo e rimesse alle sue decisioni. E nel caso attuale, nel caso cioè di un problema internazionale che sta sotto gli occhi di tutti, la democrazia domanda proprio di essere praticata internazionalmente, affidando ai popoli la decisione della guerra; e i popoli sono rappresentati all’Onu, non al Congresso di Washington. Novak intende parlare in nome della dottrina cattolica, senza averne l’autorità; e compie una riduzione della dottrina stessa, adeguandola alle esigenze dell’amministrazione Bush. Chi invece realmente possiede tale autorità, il papa, ha detto cose molto diverse. Ha parlato non solo contro la guerra, ma contro la “logica della guerra”; ha parlato di Dio non come del “Signore degli eserciti”, ma come Signore della pace e come amore; un Dio nel nome del quale non si potrebbe mai costruire un impero. È il momento, questo, nel quale proprio l’intelligente comprensione della dottrina cattolica fornisce quella criticità di pensiero che evita, pur con buoni motivi, di compiere scelte sbagliate, e può aprire davvero, per il futuro, le vie della pace.

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