Il dialogo è l’incontro

Quali echi ha riscontrato dal suo punto di osservazione dopo il grande appuntamento di gennaio ad Assisi? “Echi positivi ce ne sono stati. Ad esempio, numerosi tra coloro che hanno partecipato all’appuntamento ci hanno scritto, per esprimere la loro gioia per lo spirito trovato e per l’accoglienza del Santo Padre. Alcuni di loro hanno parlato del 24 gennaio nei rispettivi paesi, talvolta organizzando dei meeting ad hoc. “Ma c’è stato anche qualcosa di negativo. In particolare ritengo che la giornata di preghiera per la pace non abbia avuto l’impatto sui media che aveva invece avuto nell’ottobre 1986. Ormai siamo abituati a vedere rappresentanti di diverse religioni riuniti, anche se non dappertutto nel mondo. Non era più, insomma, una grande notizia. “Anche se, debbo dirlo, i media non hanno saputo cogliere gli elementi di novità, come il simbolico viaggio in treno, o il fatto che diversi capi religiosi, nelle loro lingue, abbiano espresso un comune impegno per la pace. Il Santo Padre ha ripreso queste proposte, inviandole a tutti i capi di stato per implorare un impegno maggiore per la pace. “Ulteriore nota positiva è il fatto che numerosi personaggi spirituali e politici abbiano una grande fiducia nel Santo Padre. Credono addirittura che lui possa fare tutto… In ogni caso si costata in questo modo la grande forza morale del papa”. Alcuni esponenti cristiani, non cattolici, hanno espresso delle riserve per un presunto “papacentrismo” manifestato ad Assisi. “Chi ha partecipato all’organizzazione della giornata si è reso conto dei grandi limiti che esistevano. Nell’86 il papa aveva potuto accogliere gli ospiti a Santa Maria degli angeli e camminare con loro per le strade di Assisi in tutta libertà. Stavolta non era possibile, sia a causa della salute del pontefice, ma anche dei motivi di sicurezza. Mi sembra poi che il papa abbia accolto i partecipanti e abbia espresso il suo pensiero, anche perché era il promotore dell’iniziativa”. Quali le conseguenze positive della grande riunione pubblica? “Le cerimonie non si sono svolte soltanto ad Assisi, ma dappertutto nel mondo. Giusto per fare un esempio, a Marsiglia avevano previsto una cerimonia in una grande chiesa, che si è rivelata troppo piccola per accogliere i fedeli di diverse religioni che volevano parteciparvi. Oppure a Birmingham… un po’ dappertutto nel mondo. Questo è un sintomo del bisogno di pregare per la pace, avvertito da tanta gente. È un effetto non solo del 24 gennaio, ma di tutto ciò che è stato realizzato dall’86 in poi. Certo, purtroppo la pace stenta a venire, anche se non si possono nascondere i progressi, come ad esempio sta avvenendo nello Sri Lanka. Non dobbiamo mai disperare”. Come mantenere vivo lo “spirito di Assisi”? “Credo che lo spirito di Assisi proponga tre elementi: l’incontro interreligioso, la preghiera e la pace. Dall’86 in poi, la Comunità di Sant’Egidio invita ogni anno persone di religioni diverse a parlare in vari luoghi sulla pace. È importante, perché non esiste solo il dialogo tra queste persone “addette ai lavori”, ma anche parlare ad altri. Questo dà l’occasione di sentire da testimoni diretti qualcosa di vero su quel che succede ad esempio in Liberia, o in Medio Oriente, in Iraq… “Non dobbiamo poi dimenticare che questo spirito di Assisi è stato ripreso anche da altri, come adesempio dai giapponesi: ormai siamo al 25° anniversario dell’appuntamento del Monte Hiei. Promosso dall’allora abate buddhista tendai Etai Yamada, viene oggi continuato dai suoi successori. Quest’anno, in un paese buddhista, hanno scelto come tema “L’islam e le altre religioni”, dopo gli avvenimenti dell’11 settembre. È un segno della importanza che viene attribuito al dialogo interreligioso”. Come convincere gli scettici, coloro che, soprattutto per via dell’immigrazione, diffidano di chi professa un altro credo? “Al di là delle facili generalizzazioni, bisogna capire attraverso l’esperienza diretta che, ad esempio, non esiste un solo islam, come non esiste un solo cristianesimo… Esistono invece delle persone che hanno delle profonde convinzioni religiose, e che possiamo arricchirci in uno scambio reale con loro. È difficile capire tutto ciò se non se ne fa l’esperienza. Forse dovremmo impegnarci di più con i giovani, ma anche a ogni livello. È necessaria una reale educazione alla mondialità, alla multiculturalità, alla multireligiosità. Certo, questo non vuol dire per noi tacere la nostra fede: talvolta si può prestare in effetti troppa attenzione alle altre religioni, senza approfondire il cristianesimo. Sarebbe un guaio, soprattutto in Europa, in cui la cultura è impregnata di cristianesimo. Penso che anche i fedeli di altre religioni abbiano bisogno di conoscere le radici dell’Europa”. La Chiesa cattolica non è certo sola: come vede gli sforzi di altre chiese e di altre religioni per la pace? “Ho già parlato dei buddhisti tendai, ma potrei parlare della comunione anglicana che ha avuto una felice iniziativa promossa dall’arcivescovo di Canterbury per la pace in Medio Oriente, o ancora di alcuni organismi intrerreligiosi, ad esempio a Washington, che prestano una grande attenzione e un crescente impegno per la pace. Per non parlare di quella grande iniziativa che è la Wcrp, la Conferenza mondiale delle religoni per la pace. Ciò coinvolge non solo i cattolici, naturalmente. Il dialogo non cammina da solo, non basta accendere il motore. Serve uno sforzo continuo”. Si vorranno ripetere a breve scadenza incontri come quello di Assisi o come l’Assemblea del 1999 in Vaticano? “Non credo che si debbano ripetere dei grandi incontri, che pur sono utili per sensibilizzare tante persone. Ma credo che il vero dialogo si faccia nei piccoli gruppi, dove si può parlare in modo più aperto, e comunicare più facilmente le proprie esperienze di vita. Nell’ultima assemblea plenaria del nostro consiglio, nel novembre scorso, abbiamo convenuto di puntare su incontri più modesti, ma forse più efficaci”. Incontri bilaterali o multilaterali? “Tutti e due hanno la loro utilità. Gli incontri bilaterali permettono un approfondimento di alcune questioni, specialmente quelle teologiche, mentre gli incontri multilaterali possono togliere un po’ di quell’aggressività che nasce quando si entra nei problemi più scottanti”. I movimenti ecclesiali particolarmente impegnati nel dialogo interreligioso. Come vede i loro sforzi? “Tutti gli sforzi sono buoni se portano all’incontro vero tra le persone, con grande rispetto e una volontà comune di “convertire” il proprio cuore. Con questo spirito di apertura credo che tutte le iniziative siano da accogliere. Ma non dobbiamo dimenticare altri gruppi. Vedo ad esempio religiosi e religiose che si impegnano nel dialogo; si potrebbe menzionare il “Dialogo interreligioso monastico” che organizza incontri con monaci e monache di altre religioni. E poi ci sono le strutture già esistenti, le commissioni per il dialogo… I movimenti hanno forse il vantaggio di potere assicurare la continuità dei rapporti; anche se le persone cambiano, i movimenti non abbandonano le persone. Il dialogo in effetti è una rete di amicizie e di rapporti personali”. Le famiglie religiose missionarie si trovano confrontate, forse più di altre, al dover coniugare il dialogo religioso con la missione. Tradizione e innovazione… “Si possono conciliare possedendo una buona teologia della chiesa, di quella che è la missione della chiesa, la sua funzione, la sua sacramentalità, cioè il fatto che la chiesa è sacramento di salvezza, segno di una realtà più grande di sé stessa… È fondamentale rileggere e assimilare tutto ciò che ha portato di nuovo il Vaticano II, in cui si riscontra come la missione, l’annuncio di Gesù Cristo, comporti anche un elemento di dialogo. Non si può presentare il vangelo all’indio dell’America Latina come al masai del Kenya allo stesso modo! Il vangelo non cambia, ma i modi di presentarlo sì. “E quando si dialoga, lo si fa con persone che rimangono della loro religione, e che non manifestano interesse a diventare cristiani. Ma dialogare non è solo ascoltare; è anche parlare. Certo, come diceva il papa a Madras bisogna fare un “rispettoso annuncio”: dobbiamo imparare dalla pedagogia di Gesù che lascia la libertà, ma essendo pronti ad accogliere le sorprese dello Spirito. “La mia società missionaria, i missionari dell’Africa (Padri bianchi), ad esempio, hanno puntato proprio sull’incontro delle persone, collegando l’impegno missionario alle situazioni reali delle persone, alla giustizia, alla pace, alla riconciliazione”. Come evitare sincretismo e irenismo? “Approfondendo la nostra fede. È questo la migliore difesa contro la tentazione del sincretismo: una fede provata e vissuta. Ciò ci apre agli altri, senza il bisogno di aggiungere niente. Contro l’irenismo ci vuole un sano realismo, non nascondere le ombre che esistono. La ricerca della verità fa parte del dialogo”. In fondo, allora, perché dialogare con fedeli di altre religioni? “Perché esistono. Dialogo non vuol dire mettersi attorno a un tavolo per discutere, ma incontrare altre persone, condividere vita e preoccupazioni, gioie e tristezze. C’è anche una ragione teologica: la nostra fede in Gesù Cristo, che si è unito con tutti. L’incarnazione, centro della nostra fede, ci mette in contatto con tutte le persone umane, siano esse jainiste, zoroastriane, buddhiste… In ognuna di loro andiamo ad incontrare lo spirito di Cristo. È una grandissima avventura”.

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