Idea e realtà di tre geni del rinascimento

Van Eyck, Antonello, Leonardo. L’etichetta del Rinascimento sembra essere l’unico filo conduttore che accomuni i tre nomi che campeggiano sui manifesti dell’esposizione, ma possiamo accettare il fatto che non trattandosi di una mostra tematica, i capolavori presenti nel caveau della Biblioteca Reale brillino nella loro individualità come brillano i singoli gioielli estratti da una cassa del tesoro. Il travaglio della storia che narra lo smembramento e il ritrovamento dei frammenti del codice miniato noto come Heures de Turin-Milan svanisce all’incanto della visione di Jan Van Eyck: una pagina miniata con la nascita di Giovanni il Battista. Per osservare le qualità del capolavoro dipinto in punta di pennello servirebbe una buona lente di ingrandimento: una cassa aperta a mo’ di forziere lascia intravedere il tesoro di oggetti che custodisce, gli zoccoli sul pavimento, il gatto in primo piano che ci fissa rizzando il pelo” Nulla è trattato in modo compendiario e sembra un miracolo come nel ristretto spazio di questa illustrazione possano essere contenuti insieme la ricchezza documentaria e l’aria sospesa e magica degni di un quadro fiammingo della più alta qualità. Le soluzioni luministiche, l’attenzione ai dettagli cronachistici e il fiammeggiante letto a baldacchino fanno pensare al famoso dipinto dello stesso autore, il Ritratto dei coniugi Arnolfini. E pensando proprio ai mercanti italiani residenti nelle città del nord Europa, che furono i tramiti tra pittura fiamminga e italiana, lo sguardo si sposta per ammirare uno tra gli esiti maggiori di questo scambio: il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina, noto come Ritratto Trivulzio. La forza di quello sguardo penetrante rivolto allo spettatore si presenta ancora intatta. Le influenze fiamminghe sono visibili nelle venature miniaturizzate degli occhi e nelle folte e ribelli sopracciglia delle quali ad occhio nudo si possono vedere i riflessi di luce; e chi l’avrebbe mai pensato? Tutta italiana è invece la composizione, essenziale fin quasi all’astrazione: un busto di tre quarti con gli occhi fissi in quelli dello spettatore; un esile parapetto e uno sfondo d’ombra che col tempo si è fatto un tutt’uno col mazzocchio dalle lunghe falde, intuite più che viste, grazie all’ombra portata che si staglia sulla veste rossa. La mezzaluna delle palpebre è ripresa e amplificata dal profilo della fronte incorniciata nel mazzocchio, un “arco incorruttibile” come lo ebbe a definire Roberto Longhi. Diversa fattura ma parallelo gioco in bilico tra reale e astratto per l’Autoritratto a sanguigna di Leonardo. I tratti del volto appaiono come da un sudario, mentre il capo e la lunga barba svaniscono fra le piccole tracce di ossidazione perfettamente “in tinta” col colore della sanguigna. Parallele, ritmiche e astratte, le onde che solcano la barba riportano al “fluire” dei disegni più tardi come il Diluvio; è uno dei tratti che fa supporre il tipo di un “ritratto ideale”, ipotesi che comunque non giustifica i dubbiosi riguardo i reali lineamenti dell’artista. D’altronde nella sala è presente uno dei tanti volti disegnati dall’artista che, pur non essendo un autoritratto, si mostra con fronte alta, sopracciglia prominenti, naso aquilino, labbro inferiore sporgente. Tolta la barba e ruotata la posa di tre quarti fino ad un netto profilo, la fisionomia dell’autoritratto potrebbe a buona ragione ritrovarsi anche nella Testa virile di profilo incoronata di alloro. Ma a che vale valutare la reale presenza dei tratti dell’artista in questi volti quando lo stesso Leonardo ha affermato che in ogni pittore vi è la tendenza a riprodurre sé stesso nelle proprie figure e in tutto quello che rappresenta? E ancora, nella vetrina del caveau, ritroviamo realtà e idea negli Studi di proporzioni del volto e dell’occhio; un volto che qui è investito di tracciati, misure e appunti alla stregua dell’uomo vitruviano di Venezia, ma se lì nel quadrato è inscritto tutto il corpo, qui vi sono inscritti i tratti somatici più salienti: mento, bocca, naso, e un’attenzione particolare è riservata all’occhio, quello stesso occhio che ritroviamo nello Studio per l’angelo della “Vergine delle rocce”. Quel volto che si volge a noi è così bello e dolce, ed è così vero l’amore di quello sguardo tanto da pensarlo di creatura celeste più che terrestre. È ideale ma esiste, c’è e ci guarda; è vero ma appartiene ad un altro mondo. Idea e realtà continuano a intrecciarsi nel Codice sul volo degli uccelli. Le scritte si sovrappongono ai disegni, e vorrebbero svelare la legge inscritta nelle cose, scritte che allo stesso tempo diventano “cose” e assumono un valore estetico non inferiore a quello dei disegni. Una sfumatura che porta a rivedere anche i testi dei codici miniati con un nuovo sguardo, un nuovo punto di vista. All’uscita dal caveau si ha l’impressione di aver fatto un viaggio indietro nel tempo e, forse è più vero, fuori dal tempo, in quel luogo tangibile e indefinito dove la realtà è vista con uno sguardo che va dentro le cose e oltre le cose; che sulle ali del genio ci mostra quell’ineffabile punto d’incontro tra la realtà di una cosa che esiste e la verità dell’idea che questa racchiude.

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