Ho un amico drammaturgo

Conosco un drammaturgo, professore in un ateneo.Una lettera di presentazione per una borsa di studio all’estero aveva creato le condizioni di approfondire la nostra conoscenza e aprire fra noi un dialogo. Mi aveva confidato di avere una figlia handicappata, l’unica avuta, e che quella disgrazia aveva distrutto anche il suo matrimonio. Aveva lasciato il suo Paese e viveva da solo in Italia. Durante la nostra prima breve chiacchierata ho notato che beveva forte. Nell’insegnamento e nella rappresentazione dei suoi drammi c’era il senso della sua vita. Una volta, parlando del consumismo gli avevo espresso che il danno più grave era che non tenesse conto della realtà dell’uomo tutto intero, della sua innata qualità di trascendenza. Parlai del mio percorso di fede. Si meravigliò, era ateo. Secondo lui la ragione è sufficiente a sé stessa e questo è l’unico vero talento dell’uomo. Era convinto che la secolarizzazione fosse la più grande conquista, e che le masse dei credenti fossero il freno per il progresso umano. Come un automa mi definì la religione alienazione e oppio dei popoli. Parlando con un francescano di queste chiacchierate egli, con la sua essenziale concisione, mi disse: Finché il tuo professore non accetta la necessità del mistero, non avrà pace. Quando la ragione basta a sé stessa non è più ragione. Per conoscere veramente bisogna accettare il mistero. È necessario alla stessa ragione. Recentemente, dopo anni di silenzio, il professore mi scrive: Ricordi le discussioni? Non è che io avessi da ridire sulla tua fede, ma ero convinto che con gli anni ti saresti reso conto in quale trappola eri caduto o comunque da quale trappola dovevi cercare di uscire. Eppure quando mi dicesti: Professore, lei non avrà pace finché il mistero non sarà per lei una necessità, qualcosa si è incrinato dentro di me! Non ci siamo più visti, mi sembra, da quella volta. Quelle parole, inesorabili come un colpo di fucile sono rimaste lì, sospese nell’aria, una spada di Damocle, sempre sulla mia testa. Il mistero, l’ignoto, erano per me spazi da conquistare. Una volta conquistati i territori sconosciuti, la mia dignità mi imponeva di scandagliare altri enigmi, scioglierli, decodificarli. Questo era per me lo scopo della vita. Il mistero, oscuro e sospetto, era l’unico vero nemico dell’umanità, il nemico da smascherare e abbattere… L’anno scorso mia moglie è stata ricoverata in una clinica con un male incurabile e mia figlia Caterina è rimasta per mesi da sola nell’istituto dove è ospitata. Le infermiere mi hanno fatto sapere che non stava bene. L’ho raggiunta. Era caduta in depressione. Non aveva voglia di vivere. Appena mi ha visto ha chiesto come stava la mamma. Non sapevo cosa dire. Avevo nella borsa due mie opere con la dedica per lei. Che peso! In quella stanza tutto era capovolto. In quello spazio anonimo, pur se pieno di tutto ciò che è necessario a vivere dignitosamente, mi sentii sperduto, inutile, fuori posto. Mia figlia non voleva guardarmi in faccia. Guardava fuori dalla finestra. Guardavo con lei e vedevo le fronde senza foglie dei pioppi. La finestra aveva delle grate. Come un carcere. Lei era sempre lì. Io potevo viaggiare. Lei aveva bisogno di poco. A me, il molto non bastava. Eppure avevamo lo stesso sangue. In quale mani stava la regia di questo gioco? Perché a Caterina era toccato un posto con le grate e a me viaggi, serate in smoking, applausi, spazi e spazi. Lei mi chiese ancora come stava la mamma. È tutto quello che ha. Il suo tutto è una persona. Ora le mancava. Qual era il mio tutto? Ero già nel viale antistante l’istituto. Mi girai a guardare la finestra con la grata. Non so perché, ma ebbi l’impressione di non capire più niente. La mia libertà di andare dove volevo era vincolata alle cose da fare, ai progetti da realizzare. Caterina non ha progetti. Caterina ha soltanto un affetto. Quella strada fino al taxi non so se è stata lunga o corta. Il mio passo si era fatto di piombo. L’aria era soffocante. Soffocante. Chiesi al tassista di portarmi nella clinica dove stava mia moglie. Da anni non mi aspettava più. Come sta Caterina?, mi chiese sorpresa. Quando mi vide piangere, ebbe paura che le annunciassi chissà cosa. Mi trovai solo. Escluso da un mondo di affetti. Quei legami mi parvero compatti e crudeli. Ero solo davanti ad una vita che era andata avanti senza di me. Nessuno aveva bisogno di me. E io non ero capace di dare niente. Nel totale smarrimento, mi vennero in mente le tue parole. Sì, se non fosse illogico ti direi che in quel momento mi sarei messo a pregare. Ero come un imputato, un condannato. Non c’era più l’arroganza che in altri momenti mi aveva fatto imprecare. Ero più povero di mia moglie condannata a morte, preoccupata soltanto del futuro della figlia. Ero meno libero di una creatura seduta in carrozzella che guarda il cielo, ne studia i colori e le stagioni e non sa altro. Disarmato e vinto, non riuscii a ripartire. Cominciai a portare a Caterina le notizie della mamma e alla madre le notizie della figlia. Il mistero, l’inafferrabile era entrato nella mia esistenza. Avevi ragione tu. Ora mi sembra che l’unica cosa veramente necessaria per vivere sia qualcosa di estremamente semplice. Ti ringrazio.

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