Con gli occhi di Dalì

Quando uno sguardo che sfida il limite diventa contagioso. A Bologna i soggetti onirici, paranoici e mistici. Le riduttive interpretazioni della critica

Bologna impazzisce per Dalì. E ne ha tutte le ragioni. Il suo virtuosismo pittorico, già da solo, lascia tutti a bocca aperta, c’è poco da dire! Ma l’ammirazione diventa stordimento mano a mano che l’occhio, insieme al piacere della “buona pittura”, passa in rassegna i soggetti onirici, paranoici e mistici.

Tra egocentrismo e narcisismo, le sue metafore visive ribaltano la sfera intima in immagini di valore universale. I cortocircuiti visivi e le contaminazioni tra sacro e famigliare, richiedono una fruizione di tipo mentale. Lo spettatore deve disporsi all’impresa di sbrogliare la matassa di significati e immagini.

Troppo spesso, però, la critica ha ridotto questo gioco avvincente ad una spietata analisi psicanalitica, presentando dell’artista solo le psicosi e le paranoie. La patologia è diventata così la principale chiave di lettura della sua arte. È pur vero che fu lo stesso Dalì a fare del proprio agitato “mondo interiore” un trampolino verso la popolarità. Battezza il proprio metodo creativo con l’appellativo di “paranoico critico”; vende la propria immagine come quella di un genio borderline; si fa ritrarre come un divo eccentrico, nell’abbigliamento e nelle pose, con gli affilati baffi all’insù e gli occhi sbarrati.

Ecco che, quando si va a vedere Dalì, le guide ci raccontano quadro per quadro la sua cartella clinica. Eppure, com’è stato per Van Gogh, la sua opera assume valore indipendentemente dai “moventi” psichici che possono averla determinata. Ma il pubblico, stavolta, pare svincolarsi dai dettami della critica per assecondare il delirante mondo di Dalì. Complice anche un po’ di spirito modaiolo, la conoscenza dell’artista si estende dall’arte ad un’esperienza più ampia.

Così a Bologna possiamo trovare le degustazioni ispirate a Dalì, per scoprire come il formaggio Camembert abbia ispirato i celebri orologi molli; troviamo una sezione del museo ebraico dedicata ad approfondire il rapporto tra l’artista e l’ebraismo, e ancora la Dalì bike parade, la rassegna cinematografica a lui dedicata e altro ancora. E, almeno questa volta, si guarda Dalì fuori la cliché del paranoico delirante, quanto piuttosto come l’espressione dell’uomo nel momento in cui scopre il proprio “mondo interiore”. Le contraddizioni e i contrasti riecheggiano un mondo esterno scioccante, con la scoperta dell’inconscio, il delirio della pulizia razziale, la follia della bomba atomica.

Dalì si guarda dentro, si vede e si mostra. Dipinge luoghi fino ad allora inviolati. Come fa con la sua “Venere dei cassetti”, apre indiscriminatamente botole all’altezza del cuore, del cervello, e dello stomaco. E, aperte queste botole, sembra che tutto ciò che vi è contenuto si sciolga al calore di una luce mai vista. Alla lente del proprio “mondo interiore”, tutto ciò che si riteneva solido passa inesorabilmente allo stato liquido: amori, passioni, credenze, desideri, sensazioni.

Ogni verità inscalfibile diventa molle, ambigua, indifesa come il ventre di un mollusco, soggetta agli attacchi esterni, alle insidie degli insetti, al decadimento dettato dal tempo. Quel tempo che, sottoposto all’inesorabile trattamento liquido, vede gli orologi piegarsi come gelatina; le lancette, un tempo preciso strumento di misurazione oggettiva, rassegnano a penzoloni la propria resa.

Persino il proprio autoritratto si squaglia fino a diventare una maschera di gomma; a poco valgono le stampelle che tentano di puntellare una materia che si fa inesorabilmente cascante. Autocritica? Autoironia? Forse qualcosa di più: l’autoreferenzialità dell’artista diventa una metafora del proprio modo di vedere sé stesso e il mondo: una grande mascherata soggetta al disfacimento e alla corruzione.

E poi l’improvvisa irruzione di soggetti religiosi, il desiderio di redimere sé stesso e il mondo. Presenta la Madonna di Port Lligat al Papa in persona. Gala, la sua musa, veste i panni della Madonna; il corpo si apre come una cattedrale. E poi i crocifissi, belli fino a sfiorare le soglie del kitsch, guardati dal basso o dall’alto come se quell’atto di redenzione stesse tanto sopra alle nostre teste quanto dentro il nostro stesso spazio.

E da semplici spettatori, ci si ritrova a sfidare il limite, a rovistare senza posa nell’anima e nella mente, emulando quella “genialità cosmica” che Dalì fa rivivere in noi.

 

Dalì Experience, Bologna, Palazzo Belloni, fino al 7/05/2017.

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