Fraternità: dalle parole ai fatti

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“Ese tu, ragazzo ebreo, ami, e tu, cristiano, ami, e tu, musulmano, ami e tu, indù, ami, arriverete certamente ad amarvi a vicenda. E così fra tutti. Se così faremo la fratellanza universale si allargherà, la solidarietà fiorirà, i beni saranno meglio distribuiti e potrà risplendere sul mondo l’arcobaleno della pace: su quel mondo che tra pochi anni sarà nelle vostre mani”. Così Chiara Lubich si era espressa ai piedi del Colosseo rivolgendosi ai 10 mila Ragazzi per l’unità arrivati da 93 paesi per il Supercongresso 2002. Un progetto ed una sfida. Ce ne parlano loro stessi. Samuel, nigeriano Gli scontri etnici in Africa, le tensioni in Medio Oriente, la guerriglia che coinvolge la Colombia, i disastri ambientali causati dall’uomo riempiono spesso le pagine di cronaca. Dentro le pieghe dell’attualità qualcuno prova a scrivere un’altra storia. “Erano tutti d’accordo gli amici cristiani che erano con me – mi dice Samuel, nigeriano – dovevamo uccidere quei ragazzi musulmani incontrati per la strada. Era notte fonda alla periferia di Jos, la mia città, ma il buio non mi impediva di vedere che, prima che nemici, avevo davanti dei ragazzi”. Sono passati alcuni mesi da quel difficile settembre, ma i ricordi sono ancora nitidi, interi. “Capivo che la tensione fosse alta – continua – perché in città, da giorni, le rivalità tra le etnie, tra cristiani e musulmani erano sfociate in saccheggi e stragi da entrambe le parti. Nel mio paese, per più di un secolo, le duecento minoranze etniche hanno vissuto in pace e in armonia, ma quella volta neppure l’intervento del governo era riuscito a riportare la pace. “La paura crescente aveva spinto i vari quartieri ad organizzarsi, formando truppe di sorveglianza. Io facevo parte di quelle cristiane, nel desiderio di rendere più sicura la vita di tutti. Ogni notte facevamo giri di controllo, ma era la prima volta che ci imbattevamo, faccia a faccia, con un gruppo di sorveglianza musulmano. Li avevamo accerchiati. Nella proposta di ucciderli vedevo il prevalere dell’odio e della vendetta sul dialogo e la comprensione. Per i miei compagni una vittoria, per me una sconfitta. Mentre intorno tutti discu- tevano animatamente, l’invito ad amare tutti, anche i nemici, risuonava dentro di me senza lasciarmi in pace. Era arrivato il momento di metterlo in pratica, anche se sapevo di rischiare la vita. “Mi sono avvicinato al capogruppo ed ho proposto di risparmiare quei ragazzi, non perché non ci avessero fatto del male, ma perché quelli dell’altra etnia sono, come noi, figli di Dio. Una proposta che ha lasciato tutti in silenzio. Poi la decisione unanime: li lasciamo andare via. Mentre si allontanavano ero felice, mi sembrava di aver messo in atto quella che è la Volontà di Dio per i suoi figli: che si amino come fratelli”. Sveta, ucraina “E se è vero che basta un gesto per salvare una vita – interviene Sveta, ucraina – altre volte in pochissimo tempo possiamo essere capaci di rovinare tutto. Il 26 aprile 1986, un’ora e 20 minuti, è stata sufficiente per provocare a Chernobyl, la mia città, una catastrofe più grande di mille cataclismi “. Sveta ricorda così l’esplosione nella centrale nucleare che portò alla contaminazione di migliaia di ettari di terra, tuttora inutilizzabili, e fece evacuare 450 tra paesi e città. Migliaia di persone si ammalarono di cancro e molti, da allora, sono i bambini che nascono affetti da leucemia. “Migliaia di destini rovinati…”. Si ferma per qualche istante in silenzio, poi confida: “Anche io porto sulla mia pelle le conseguenze di quell’incidente “. Si velano di lacrime i suoi profondi occhi azzurri. “A volte – prosegue – mi sono sentita delusa e senza speranza. Perché l’uomo, così intelligente e capace di scoprire i segreti dell’universo e migliorare il suo tenore di vita, può arrivare a questo? Perché, nella corsa frenetica verso una vita migliore, dimentica la cosa più im- portante: mettere in pratica quella che è chiamata “Regola d’oro” che invita a fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. Ho capito che vivere così, continuando a credere che è possibile costruire un domani diverso, è la soluzione anche per chi ha conosciuto, come me, l’inferno di Chernobyl”. Una certezza che Sveta adesso condivide anche insieme ai ragazzi per l’unità. “Ho vissuto mesi difficili, ma Dio non mi ha lasciata da sola. Grazie all’amore che ho ricevuto da molte persone ho ritrovato la forza di essere ancora felice e la fiducia in me stessa e negli altri. Non sono più sola, ho tanti amici che come me vogliono vivere per la pace, riportando l’amore tra tutti. Ogni mattina sono grata a Dio per il giorno nuovo da vivere e per la gioia che posso condividere con la gente intorno a me”. Jésus, colombiano Ascolta con attenzione Jésus, colombiano, e poi osserva: “Credere ancora nella pace ed ostinarsi a costruirla è decisamente una scelta controcorrente “. Una riflessione che nasce dalla vita e che porta il ragazzo a parlare della travagliata attualità del suo paese, dove la situazione politica, sociale ed economica rimane molto complessa. “La stampa mondiale si occupa di noi solo quando tragici fatti di cronaca attirano l’attenzione, ma la popolazione vive sempre in un clima di tensione e di paura. I gruppi armati che si oppongono al governo sono attivissimi, la guerriglia è sempre in atto e ci fa stare tutti in allerta. Molti sono i ragazzi della nostra età che, per senso di giustizia o di vendetta, si uniscono a questi gruppi. Le armi tra i giovani sono sempre più diffuse. Con i ragazzi per l’unità, però, viviamo per creare una nuova mentalità costruendo un mondo unito a tutti i costi. “Un giorno, mentre mio fratello usciva di casa, abbiamo sentito alcuni colpi di pistola ad aria compressa. Un ragazzo, nostro vicino di casa, gli aveva sparato. Mi sono accorto subito, però, che, più che le ferite lievi sulla pelle, quei colpi avevano lasciato un profondo segno nel suo cuore: la rabbia e la voglia di vendicarsi. Tutti in famiglia erano inquieti. Un gesto azzardato, però, avrebbe generato solo altro odio. Dovevo fare in modo che quell’episodio non si ripetesse. Mio fratello, senza dirmi niente, ha però iniziato a risparmiare i soldi che nostro padre ci dà regolarmente per la scuola e si è comprato, di nascosto, una pistola come quella che l’aveva ferito. “Un giorno, entrando nella sua stanza all’improvviso, l’ho trovato alla finestra con la pistola puntata proprio verso la casa dei nostri vicini. Ho capito subito che era appostato in attesa che quel ragazzo uscisse in strada. Non ci ho pensato due volte: mi sono gettato verso di lui togliendogli di mano la pistola. “Noi non facciamo queste cose – ho gridato -, abbiamo imparato a costruire un mondo unito e dobbiamo vivere per quello”. Poi, con tutta la forza che avevo, ho gettato la pistola contro il muro e l’ho spaccata. L’unica soluzione era distruggerla. Se l’avessimo venduta, avremmo generato altra violenza. Qualche tempo dopo il nostro vicino ha smesso di farci del male ed i rapporti sono tornati sereni. “”Avevi ragione tu!”, è stata la costatazione di mio fratello che mi ha ringraziato di quel gesto. Aveva capito: dobbiamo iniziare noi a costruire la pace”. Hind, palestinese “Pace, ecco la parola che più di tutti mi fa pensare al mio paese”. Si accendono così i ricordi di Hind, araba cristiana. Sono vicende dai colori forti, come il sole del suo paese, nel cuore infuocato del Medio Oriente. “Una lunga coda di auto che avanza lentamente. Un posto di blocco israeliano che controlla meticolosamente persone e documenti. Questa è la scena che mi aspetta ogni mattina quando, per andare a scuola, arrivo alla confluenza della zona araba con quella ebraica. I rapporti tra civili e soldati sono tesi, a volte l’odio non più sopito e controllato, sfocia in discussioni e violenze. “La scoperta che Dio è amore e che ci ama tutti in modo uguale ha però radicalmente cambiato la mia vita. Ed anche il modo di affrontare quei controlli. Un giorno, arrivato il mio turno, alcuni soldati mi hanno rimandato, apparentemente senza motivo, in fondo alla fila, costringendomi ad altra attesa. Quando è arrivato di nuovo il mio turno, ho consegnando il documento al soldato, con un sorriso. Lui, sorpreso della mia espressione, così insolita per quell’ambiente, me ne ha chiesto il motivo. Ho detto che credo in Dio ed è lui a darmi la gioia. “Era da poco passato l’11 settembre e lui, a bruciapelo, mi ha domandato come mai quel mio Dio permetta fatti terribili come quelli. Ho spiegato che non è lui a fare cose cattive, ma l’uomo. “In questa situazione – ha concluso – non avevo mai incontrato nessuno cosi felice!” La sfida più grande, però, è arrivata il giorno nel quale ho saputo che anche alcuni ragazzi ebrei volevano come noi vivere per un mondo unito. Se è vero che non c’è differenza fra cristiani, musulmani ed ebrei, dovevo amare tutti, senza distinzione. Il primo passo è stato quello di incontrarmi con una di loro. Per la prima volta nella mia vita parlavo con una persona ebrea che non fosse un soldato. Per tanti nel mio paese sarebbe apparsa un’utopia anche solo vederci sedute vicine. All’inizio avevamo un po’ di timore, poi ognuna ha detto cosa pensava della situazione. Incredule ci siamo accorte che entrambe volevamo costruire la pace”. Immagini ed esperienze passate che si intrecciano con le vicende di oggi. “La situazione rimane difficilissima. Soprattutto nei momenti più duri, sapere che ci sono ragazzi per l’unità anche tra i popoli che tutti considerano nemici, ci dà la certezza che fare della nostra terra una casa per tutti è possibile”.

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