Flessibilità sì, ma sostenibile

È tempo di dialoghi e di scontri sul lavoro. Luigi Bobba è il presidente nazionale delle Acli e ha lanciato una petizione popolare per la flessibilità sostenibile. L’obiettivo è di arrivare a 100 mila firme per settembre. Si punta in alto. La richiesta al Parlamento mira all’adozione di un nuovo Codice dei diritti del lavoro che preveda un sistema di provvedimenti legislativi per nuove forme di tutela, protezione e promozione del lavoro, orientati alla centralità della persona umana “non come uno dei tanti parametri in gioco – spiega Bobba – ma come criterio-chiave di ogni scelta sociale, economica e politica in materia di lavoro”. La premessa è che se da una parte occorre prendere atto che la flessibilità è in qualche misura inevitabile, in quanto esito dei processi di globalizzazione e della società post-industriale, dall’altra questo non può e non deve significare l’accettazione acritica di una flessibilità illimitata. “L’ambivalenza di opportunità e rischi insita nel fenomeno della flessibilità – dice Bobba – non può essere semplicemente negata, ma chiede di essere governata affinché la flessibilità non diventi precarietà e la mutevolezza dei percorsi lavorativi non si trasformi in incertezza per la vita. Permassimizzare i benefici della flessibilità e limitarne al minimo i costi individuali e sociali, occorre individuare nuovi strumenti di tutela all’insegna di una flessibilità sostenibile”. Da dove bisogna partire per raccogliere questa sfida ad umanizzare le nuove forme del lavoro sempre più esigente, sotto il profilo del tempo, della mobilità, delle conoscenze e delle competenze? “Si parte dai diritti di formazione come nuovi diritti civici e di libertà: diritto all’orientamento e alla formazione di chi deve accedere al mondo del lavoro, diritto alla formazione permanente di chi lavora, diritto alla formazione integrativa di chi aspira a cambiare lavoro, diritto alla riqualificazione professionale di chi perde o rischia di perdere il posto. Tale impegno si può concretizzare in una politica di agevolazioni fiscali: detrazioni, contributi formativi, detassazione di parte del Trattamento di fine rapporto, deduzione del reddito d’impresa dei costi delle attività di formazione promosse dalle aziende”. La flessibilità comporta la frammentazione dei percorsi lavorativi, c’è una difficoltà oggettiva ad identificarsi in una professione, in un mestiere… “Il lavoratore, invece, non deve incorrere nell’azzeramento delle esperienze ogniqualvolta cambia lavoro. Va prevista la certificazione delle competenze acquisite ai fini di una “carriera trasversale” alle diverse aziende, capace di trasformare la mobilità in una opportunità di crescita e sviluppo professionale”. La parola flessibilità spesso giustifica il super-lavoro, la chiusura di ogni spazio per la persona e per la famiglia? “La flessibilità implica orari non regolari o eccedenti le 8 ore giornaliere, la disponibilità a viaggiare di uno dei due coniugi, la disponibilità a destinare il sabato e a volte anche la domenica al lavoro. La flessibilità sostenibile detta l’esigenza di recuperare il tempo della festa rispetto a quello del lavoro, quindi no al superlavoro e sì alla difesa dei tempi per la crescita personale, per la famiglia, per l’impegno sociale”. Quali potrebbero essere gli strumenti attivabili? “Il passaggio dall’attuale sistema di part-time al tempo scelto o parttime a richiesta, la destinazione di risorse congrue alla legge sui congedi parentali per la sua effettiva fruibilità, il sostegno alle banche del tempo e alle associazioni o cooperative familiari per lo sviluppo di forme di mutuo- aiuto”. Che cosa propone la petizione per le famiglie più povere, a cominciare da quelle del Sud, per le quali più che di superlavoro si parla di disoccupazione a due cifre? “La flessibilità sostenibile nelle aree depresse del paese significa intervenire a sostegno del reddito a cominciare da due misure: un assegno pari a 5 milioni di vecchie lire all’anno per ogni figlio a carico, la concessione di un mutuo-casa a tasso zero per tutte le giovani coppie, con un regime Irpef dimezzato per i primi tre anni”. Sono sempre di più le famiglie dove si lavora in due. Flessibilità non sempre vuol dire part-time, anzi spesso significa una sovraesposizione della donna agli equilibrismi più spericolati, una ulteriore variabile negativa per l’organizzazione complessiva. “Bisogna creare delle reti di sostegno per la famiglia che lavora. Anzitutto rafforzando l’offerta dei servizi per la persona, soprattutto per la cura dei bambini e degli anziani. I provvedimenti che proponiamo dovrebbero attivare un sistema di deducibilità dei costi sostenuti dalle famiglie e adeguate politiche dell’immigrazione, con particolare riferimento alla definizione dei flussi e alle procedure di regolarizzazione di immigrati impiegati nei lavori domestici e di cura”. Il Terzo Settore, il cosiddetto privato sociale, è una delle realtà più interessanti e atipiche degli ultimi anni, avete pensato a intervenire anche qui? “Il Terzo Settore ha creato in questi anni 150 mila nuovi posti di lavoro ed è l’attore principale della rete non istituzionale del nuovo stato sociale. Occorre favorire la deducibilità delle spese di tipo sociale, incrementare la deducibilità delle donazioni delle persone e delle imprese al nonprofit; finalizzare a questo settore le risorse dell’8 per mille destinate allo stato, creare un fondo nazionale per lo sviluppo del Terzo Settore, rifinanziare il progetto Fertilità per la moltiplicazione delle cooperative sociali nel Sud, incentivare borse annuali di avvio al lavoro per tutti i giovani delle aree depresse e incoraggiare le organizzazioni che realizzano in un triennio elevati tassi di stabilizzazione dei giovani avviati”. Quali sono gli interventi che suggerite per il mercato del lavoro, diciamo così, tradizionale? “La flessibilità non dovrebbe riguardare tanto la persona che lavora, quanto tutto quello che ruota nel mondo del lavoro, dovrebbe essere più flessibile alle esigenze dell’uomo, ad una qualità della sua vita sempre migliore. In questo senso anche il mercato del lavoro ha bisogno di servizi più flessibili, più idonei a rispondere ai bisogni di chi cerca un lavoro. Per questo proponiamo un sistema di servizi per l’intermediazione di domanda-offerta estremamente aperto e accessibile, a partire dal superamento dell’attuale sistema di compartimenti stagni per giungere ad uno sportello unico dei servizi per il lavoro: orientamento, formazione, accompagnamento e inserimento al lavoro. E auspichiamo la costituzione di un portale aperto alimentato dagli attori periferici pubblici-privati, con il reinserimento dei comuni nella gestione dei servizi per l’impiego”. Di tutti questi temi si è parlato, secondo lei, in modo adeguato nelle recenti trattative a Palazzo Chigi tra governo e sindacati per un nuovo patto per il lavoro? “Seguo con attenzione gli sviluppi di questo confronto ma ho in questo momento qualche perplessità. Se penso che per la riforma sugli ammortizzatori sociali si è accennato a 700 milioni di euro, quando secondo un vecchio progetto del professor Onofri, che risale al periodo della presidenza Prodi, si erano calcolati almeno 4 milioni di euro…”. Da dove partirebbe lei? “Io cercherei proprio di ripartire dal Progetto Onofri che prevedeva l’aumento degli assegni familiari per le famiglie con figli, in base al reddito, l’aumento dell’indennità di disoccupazione, la destinazione delle risorse per offerte formative a tutti coloro che si trovano in situazioni di lavoro intermittente… E poi bisogna vedere che fine farà la cassa integrazione, la mobilità lunga, l’indennità di disoccupazione per i lavoratori dipendenti in agricoltura: oggi la percepiscono in 570 mila…”. E sul documento di programmazione economica e finanziaria del governo (Dpef), qual è il suo giudizio? “È difficile fare un commento. È positivo l’obiettivo della riduzione delle tasse, ma se vogliamo correggere l’iniquità sociale dobbiamo investire le risorse recuperare verso le fascie più deboli. Altrimenti, un euro dato ai reddito medio-alti significa di fatto un euro tolto a chi è senza lavoro, alle famiglie con figli, ai più disagiati. Vorrei aggiungere che nel sistema delle deduzioni dovrebbe entrare la formazione permanente. E questa è una bella novità, è dall’epoca del governo D’Alema che la chiediamo…”.

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