Emmanuel Mouinier Trascendersi per ritrovarsi

Grenoble, 1900, inizio degli anni Venti. Nell’anima del giovane Emmanuel si fa strada, inarrestabilmente, una convinzione che non l’avrebbe più abbandonato: Il cristianesimo non è un ornamento domenicale della piccola borghesia francese che lo circonda, è fuoco; lo stesso che ha temprato una Giovanna d’Arco, fuoco che anche oggi continua a bruciare tutto ciò che ha da cadere, plasmando una società nuova. Ma per portare questo messaggio tra gli uomini, ci vuole uno strumento; quello che Dio dà a lui è la filosofia: sarà una filosofia imbevuta dalla Parola di Dio e interprete di essa, impegnata e combattente, che non smetterà di riportare l’attenzione sul primato dello spirituale. Mounier inizia quindi a studiare la filosofia da Jacques Chevalier, professore grenoblese affascinato dal pensiero di Henri Bergson e Maurice Blondel. Apprende che la sorgente più genuina della vita cristiana, così come di ogni conoscenza, è l’intuizione e l’esperienza interiore. Ne deriva una certa diffidenza riguardo all’eccessiva speculazione intellettualistica, diffidenza che sempre caratterizzerà l’opera di Mounier, anche se andrà progressivamente attenuandosi quando si tratterà di trovare una matrice plausibile per la filosofia personalistica, da lui lanciata. Parigi, anno 1927. Mounier arriva alla capitale per concludervi gli studi, presentandosi all’esame dell’agrégation alla Sorbona. Intesse rapporti di profonda amicizia con i migliori pensatori cristiani che in quell’epoca si trovano nella città: Jacques e Raïssa Maritain, Jean Guitton, Jean Daniélou, Gabriel Marcel, Nicola Berdiaev. Nessuno di loro fa parte dell’establishment universitario, ma è il pensiero alternativo e d’avanguardia di questi intellettuali quello che si sarebbe successivamente rilevato di una vitalità e una forza rinnovatrice enormi, sia nell’ambito filosofico che in quello teologico e ecclesiale. Ma torniamo a seguire il nostro filosofo. Deluso dall’ambiente troppo razionalista dell’università, Mounier decide di non intraprendere una carriera accademica. Contemporaneamente, nel circolo attorno a Maritain si sta cristallizzando un’idea: fondare una rivista culturale di ispirazione cattolica, veicolo del rinnovamento spirituale della società francese. Un’idea audace, ma che per Mounier acquista subito il sapore di una vocazione, anzi della vocazione della sua vita. Nel 1932 esce il primo numero di Esprit, Mounier diventa il direttore della rivista e si butta anima e corpo nel progetto della rivoluzione personalista e comunitaria. La dedizione irrequieta di Mounier alla rivista – che probabilmente contribuirà alla sua morte precoce, avvenuta nel 1950 a causa di una crisi cardiaca – fa sì che Esprit diventi sempre di più una tribuna privilegiata del pensiero cattolico francese, aperto al dia- logo con tutti gli uomini di buona volontà e a tutte le idee che intendono muovere gli spiriti verso il bene, secondo un principio di portata addirittura escatologica che Mounier prende da Teilhard de Chardin: tutto ciò che emerge deve convergere. Acuto commentatore della scena politica, Mounier non si schiera mai con nessun partito, pur dimostrando una chiara simpatia per le dottrine socialiste. Rimane sua, in ogni caso, la preoccupazione di creare una società che segua una terza via tra l’individualismo, dove l’uomo diventa uno schiavo dei soldi, e il collettivismo, che schiaccia la libertà del singolo. Nel frattempo, attorno alla rivista si sta formando un vero e proprio movimento, diffuso in diversi paesi europei, dalla Spagna alla Polonia. Mounier segue ogni dettaglio, scrive il manifesto del personalismo, cerca di delineare le linee di vita di una comunità personalista, organizza conferenze, congressi estivi regolari, gruppi di studio permamenti che esaminano un possibile apporto del personalismo in vari campi del sapere, ipotizza l’incarnazione della sua scuola di pensiero nel sistema educativo ufficiale, sogna il sorgere di una società interamente ispirata agli ideali personalistici. Riesce a fondare un centro di formazione a Châtenay- Malabry nei pressi di Parigi, dove si trasferisce con la sua famiglia, seguito presto da alcuni amici. Ma che cosa è, o meglio chi è la persona, per Mounier? Muovendo dalla distinzione operata già da Maritain fra individuo come soggetto chiuso in sé e persona come soggetto aperto all’altro, Mounier ribadisce che la persona cresce solo purificandosi incessantemente dall’individuo che è in lei. La persona si realizza seguendo la propria e unica vocazione e impegnandosi nel mondo, nel quale si trova incarnata. Il luogo dove avviene il processo che Mounier chiama anche la personalizzazione è il rapporto di comunione con un tu, con l’altro. Nel suo libro forse più riuscito, Le personnalisme, Mounier scrive: La persona (…) esiste solo verso l’altro, si conosce solo attraverso l’altro, si trova solo nell’altro. L’esperienza primitiva della persona è l’esperienza della seconda persona. Il tu, e in lui il noi, precede l’io, o almeno l’accompagna. Ma Mounier è realista: se voglio trascendermi come individuo per ritrovarmi come persona, devo accettare di spogliarmi dal mio egocentrismo, di spostare il mio baricentro verso l’altro, di mettere da parte il mio punto di vista per situarmi in quello dell’altro, in definitiva, di uscire da me stesso, generosamente e nella libertà che è fedeltà al proprio impegno. Già in uno dei suoi primi saggi, infatti, leggiamo che la rinuncia a sé stessi (…) è iniziazione al dono di sé e alla vita nell’altro. Più rinuncio a possedermi per favorire la comunione con l’altro, più mi arricchisco come persona: i due processi vanno di pari passo, in un rapporto dinamico di reciprocità interpersonale dove, per così dire, il vuoto dell’uno provoca il pieno dell’altro. È quindi nella comunità che si può compiere pienamente la vocazione di ogni persona, in un intreccio armonioso delle relazioni d’amore reciproco. Concludendo, possiamo affermare che con Mounier viene sorpassato il famoso detto cartesiano cogito, ergo sum (penso, dunque sono). La certezza sull’essere dell’uomo consiste nella sua capacità di amare più che in quella di pensare: L’atto d’amore – scrive Mounier – è la più salda certezza dell’uomo, il cogito esistenziale irrefutabile: io amo, dunque l’essere è, e la vita vale (la pena di essere vissuta).

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