Il Divin Codino: Baggio e le fragilità di un campione

Il film su uno dei più grandi calciatori italiani di sempre, Roberto Baggio, uscito il 26 maggio scorso sulla piattaforma Netflix, si concentra sulle difficoltà del campione e sulla sua capacità di rialzarsi, piuttosto che sulla celebrazione delle sue gesta calcistiche
©D'ALBERTO/LAPRESSE

Malinconico, sensibile, introverso fino al dimesso, prima che – e oltrechè – straordinariamente bravo col pallone tra i piedi. Il Roberto Baggio di Letizia Lamartire, quello del film Il divin codino –  dal 26 maggio scorso su Netflix – è un uomo incapace di dribblare facilmente gli ostacoli della vita, gli sgambetti che questa, chiunque tu sia, sa tenderti mentre provi ad involarti verso la porta.

Foto LaPresse Torino/Archivio storico

È segnato, questo biopic minuto – non certo sostenuto da grandi mezzi economici – da momenti complicati, difficili, nella carriera di uno dei più grandi calciatori (italiani) di sempre. A partire – all’alba del suo viaggio nel pallone – da un infortunio molto serio al ginocchio, quando era ancora ragazzino, quando Roberto Baggio da Caldogno era solo una promessa in procinto di passare dal Vicenza alla Fiorentina.

Subito nuvole, solitudine, pensieri cupi nella testa e lavoro. Poi il sole della prima convocazione in Nazionale: il sereno fugace dopo la fatica e la nebbia. Da lì il racconto, a velocità fin troppo spedita, di una bellezza purosangue inciampata presto, nella narrazione, in un’altra caduta, stavolta puramente sportiva, tecnica, diversamente – ma non meno – dolorosa: il calcio di rigore alle stelle contro il Brasile in finale di coppa del mondo. Dopo un mondiale per lui importante, con goal belli e pesanti, dopo un torneo che poteva essere memorabile e invece si è riempito di una mesta (ma empatica) umanità anche grazie a quell’errore.

Un altro punto di rottura, di non semplice ripartenza per il campione riservato e silenzioso. Prima di un altro salto nel tempo, di un’altra ellissi rischiosa che prescinde dalle grandi maglie del calcio italiano, fino a un nuovo bivio: il desiderio, quando gli anni non erano più in tasca, quando non erano più alleati suoi, quando Baggio aveva già girato l’Italia conquistando ovunque la sua gente, di andare in Giappone nel 2002. Non a prendersi gli stipendi dorati di un mito a fine corsa, ma per provare a entrare nella storia (ancora) con la sua Nazionale. Per una vecchia ossessione personale, per una questione aperta con suo padre, per un antico desiderio di sentirsi amato da quell’uomo che oltre a Roby aveva altri sei figli, e quindi poco tempo per tutti. Per quel legame conflittuale con un genitore apparentemente distante, a volte percepito come oppositivo, per una messa in moto di energia che fa di questo piccolo film (anche) una sottile riflessione sul rapporto padre/figlio.

Foto Piero Cruciatti / LaPresse

Fu una nuova sfida, per il Divin codino, una lunga e impegnativa rincorsa che passò per Brescia con Carletto Mazzone, con tanti numeri importanti e un nuovo, maledetto infortunio al ginocchio che alla fine lo costrinse ad accettare il rifiuto di Giovanni Trapattoni di portarlo in oriente. Con dolore vivo. In mezzo a tutta questa tensione, sofferenza, più centrale nel film rispetto alla celebrazione del campione, alla carrellata compilativa delle gesta atletiche, spettacolari, sorridenti, in un film più di salite che di discese indisturbate fino al goal, il buddhismo, certamente importante per l’equilibrio di Roberto Baggio, e sua moglie Andreina (nel film Valentina Bellè), importante anche lei e presente senza troppe parole, senza particolare approfondimento psicologico. Come del resto avviene per Arrigo Sacchi, per altri personaggi di contorno e per Roberto Baggio stesso, interpretato da Andrea Arcangeli con buona cura mimetica ma troppo “tagliato” negli appena 92 minuti di film. Pochi.

Poi il finale, con uno scambio di parole esplicativo tra il calciatore talentuoso e un padre normale, quando il film ha ormai fatto e le sue scelte a volte discutibili, a partire da quella (a monte) di una biografia di finzione classica compressa in un lungometraggio di durata scolastica, omologata, in epoca di documentari emozionanti, di docuserie magistrali (The last dance di Michael Jordan), di serie di finzione capaci di scavare senza fretta nei dettagli e nelle psicologie dei personaggi, di avanzare con regie scoppiettanti, piene di musica e di trovate interessanti. E Roberto Baggio, con una carriera ventennale in valigia, un viaggio più lungo, articolato, con più tappe, lo meritava. Lo meriterà.

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