Delocalizzazioni, nodo irrisolto

Dalla Honeywell alla Whirpool e Ideal Standard, le società transnazionali non trovano ostacoli nel chiudere attività produttive in Italia. Che fare?

La sede del ministero dello Sviluppo economico a Roma è un luogo di mesto pellegrinaggio per migliaia di lavoratori colpiti da crisi aziendali senza soluzioni. Secondo il rituale consueto, una delegazione dei manifestanti viene accolta da qualche referente del Palazzo riportando dichiarazioni di impegno più o meno credibili, ma che servono ad allentare una tensione che si consuma a due passi da via Veneto, simbolo della “dolce vita” degli anni ’60. Centinaia di dossier aperti negli uffici ministeriali restano senza soluzione perché la vera sede decisionale risiede altrove. Lo dimostrano tre casi emblematici di gruppi multinazionali statunitensi che, nonostante gli interventi delle istituzioni nazionali e locali, e la solidarietà della società civile, hanno deciso di spostare altrove la fabbricazione industriale dei loro prodotti, anche se si tratta  di attività radicate da decenni sul territorio italiano. Sono coinvolti centinaia di dipendenti costretti ad assistere a trattative sindacali che, alla fine, si risolvono nello spuntare qualche indennità monetaria da accompagnare al loro licenziamento, assieme all’impegno di agenzie pubbliche, come Invitalia, a trovare altre società disposte a rilevare l’impresa grazie ad incentivi come il canone agevolato per le strutture che non si possono evidentemente trasportare all’estero.

La Honeywell ha deciso di spostare la linea produttiva dei turbo compressori da Atessa, in Abruzzo, nell’Est dell’Europa, in Slovacchia, mettendo in mezzo alla strada 420 lavoratori e altre decine di operai dell’indotto. Gli scioperi che hanno bloccato l’attività della fabbrica hanno fiaccato la resistenza dei lavoratori davanti alla pragmatica volontà dei manager Usa di non prolungare oltre la trattativa ma di definire con certezza il costo dell’operazione. Conta poco la retorica sullo sconcerto delle famiglie coinvolte e degli effetti a catena nell’indotto in una regione già colpita dal terremoto. Lo stesso avviene in Piemonte dove l’Embraco, gruppo Whirpool, ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Riva di Chieri, nel torinese, dove si producono compressori per frigoriferi, con 497 licenziamenti su 537 dipendenti. Anche in questo caso la delocalizzazione di un gruppo che continua a distribuire ricchi dividendi agli azionisti, riguarda la Slovacchia. Arriveranno invece in Cina e Bulgaria le linee produttive dismesse dall’Ideal Standard di Roccasecca, nel Sud del Lazio. In questo caso sono 300 i lavoratori che la statunitense Bain capital, proprietaria della fabbrica di ceramica per sanitari, ha deciso di rimandare a casa. Il presidio permanente allestito dagli operai davanti allo stabilimento è stato visitato da diversi esponenti politici durante la campagna elettorale, suscitando inevitabile rancore in coloro che non possono più credere a promesse impossibili da mantenere. Nel 2015 la società ha firmato un accordo quinquennale dove si è impegnata ad effettuare nuovi investimenti in cambio di una riduzione di stipendi e salari per circa 80 euro al mese. In tutti e tre i casi emblematici non è in discussione la serietà e la professionalità dei lavoratori coinvolti. La recente riforma del lavoro è stata guidata dall’esigenza di rendere il nostro Paese attrattivo di capitali esteri. Con norme leggibili in inglese, come dicono alcuni giuslavoristi. Eppure non si può mettere in discussione la libertà dei capitali di trovare l’allocazione migliore nel quadro di una competizione internazionale. Un assunto che riguarda, ovviamente, non solo le aziende nordamericane. La svedese Ericsson, settore informatico, ha ingaggiato una lunga vertenza per ridurre la forza lavoro in Italia e abbassare gli stipendi, dopo aver chiuso, da tempo, un centro ricerca con 300 alte professionalità.

L’idea della salvezza ad opera di investitori dall’estero ha anche alimentato recentemente l’illusione nelle strategie del gruppo algerino guidato da Issad Rebrab, che ha acquisito gli stabilimenti  dell’acciaieria di Piombino dismessa dal gruppo Lucchini, ex presidente di Confindustria. Si parla ora dell’interesse del gruppo cinese Sinosteel equipment & engineering Co.Ltd o di quello degli Emirati Arabi Uniti Magnum Steel Industries Limited, ma l’ipotesi che si fa strada è quella di un intervento della Cassa depositi e prestiti, l’unico fondo sovrano italiano, che raccoglie risparmi postali per 250 miliardi di euro, intorno al quale si concentra il dibattito sulle strategie di politica industriale possibili nel nostro Paese. Senza rincorrere le emergenze, il “dossier” delocalizzazioni deve entrare in un dibattito aperto nella società italiana per non cadere vittima degli eventi. Nel frattempo la Apple ha annunciato di procedere nel reshoring (rilocalizzazione) della produzione negli Usa con investimenti stimati in 350 miliardi di dollari in 5 anni. Chi pagherà il conto di questa scelta? Puntare sui fattori non delocalizzabili come il paesaggio, la qualità di vita e il giacimento dei beni culturali è una delle proposte che attira molti consensi. Ma un Paese come l’Italia con una forte tradizione e presenza manifatturiera, non può interrogarsi seriamente su cosa, come e dove produrre senza abdicare a compiti di politica industriale che non siano la riduzione del danno.

 

La delocalizzazione vista dal basso

Oltre la sterminata produzione giuridica e quella scientifica sull’organizzazione dei fattori produttivi all’epoca della globalizzazione in cerca di regole, due film italiani permettono di entrare dentro la contraddizione delle scelte che cadono dall’alto sulle persone e le famiglie. Storie dove affiora, dentro il dramma, la forza di una sorprendete umanità.

Il posto dell’anima (2003), diretto da Riccardo Milani, si ispira alla vicenda della delocalizzazione dello stabilimento Goodyear di Cisterna di Latina.

7 minuti (2016), con la regia di Michele Placido, si ispira a una storia realmente accaduta a Yssingeaux, in Francia, ma ambientata nella pianura pontina, dove le operaie di uno stabilimento si trovano di fronte alla scelta di accettare la riduzione dei loro diritti in cambio del mantenimento del posto di lavoro.

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