Dal G7 una via occidentale alternativa alla “Belt and Road” cinese?

In Cornovaglia, nei giorni scorsi, il presidente Usa Biden ha invitato i partner del G7 a cercare un’alternativa per contrastare la ‘Belt and Road’ cinese, la nuova ‘via della seta' alla quale il gigante asiatico sta lavorando dal 2013
G7 via AP

Uno dei maggiori problemi del commercio mondiale è oggi rappresentato dal costo dei container e dei trasporti marittimi: si parla di aumenti fino al 300% del prezzo dei noli, causati dai problemi relativi alla pandemia, ma non solo dalla pandemia. Un problema, questo del costo dei trasporti, che si è cercato di affronatare anche aumentando enormemente la dimensione delle navi, ma l’impressione è che la cura rischia di essere peggiore della malattia, come ha rivelato l’incidente della Ever Given incagliata nel canale di Suez .

Le grandi navi da trasporto sono state finora comunque prodotte e gestite da cantieri e compagnie del mondo capitalista asiatico (soprattutto giapponese e sudcoreano), ma in questo campo si stanno facendo strada con forza gigantesche corporation cinesi, come la China Shipbuilding Industry, in assoluta concorrenza in fatto di costi, tecnologia e capacità produttiva.

Sul piano dei rapporti internazionali, da diversi anni la Cina ha avviato e realizzato accordi bilaterali, come è stato riconosciuto anche al G7, con pìu di 100 Paesi per l’attuazione della nuova ‘Via della Seta’, o ‘Belt and Road’: in pratica, una via ‘tutta cinese’ per il trasporto delle merci verso la Cina e dalla Cina al mondo intero. Da sempre il controllo dei trasporti marittimi è decisivo per decretare il potere di un Paese.

In passato questo era prerogativa esclusiva di stati e compagnie occidentali: a partire dagli spagnoli nel XVI secolo ma anche portoghesi, francesi, olandesi e inglesi. In tempi più recenti, a partire dalla metà del secolo scorso, il monopolio era passato a nordamericani, giapponesi, sudcoreani e taiwanesi. Negli ultimi 40 anni la Cina ha fatto passi da gigante con la sua tipica strategia degli accordi bilaterali win-win (vincente per entrambe le parti) e con l’enorme quantità di risorse finanziarie che è stata in grado di investire in tecnologia e infrastrutture, circa 60 miliardi di dollari. La pandemia, che ha messo in difficoltà le vie del commercio di molti Paesi, ha solo rallentato la realizzazione delle infrastrutture della Belt and Road cinese. E non solo in Cina, ma anche in molti dei 100 Paesi che hanno aderito al progetto. Ne sono un esempio il nuovo porto e aeroporto di Colombo, in Sri Lanka, oppure il nuovo porto di Sihanoukville in Cambogia.

Per non parlare dell’invasione di imprese cinesi in Africa: infrastrutture in cambio di alleanze commerciali e materie prime. Molto importanti anche gli accordi con la Russia, per eliminare i pagamenti in dollari di gas e petrolio: cinesi e russi commerciano utilizzando le valute proprie. La stessa cosa avviene con l’Iran che ha così modo di aggirare almeno in parte l’embargo occidentale, soprattutto statunitense, fornendo petrolio in cambio di infrastrutture.

Nel quadro dello sviluppo dei commerci e delle vie di trasporto marittimo è in corso in questo momento anche un intoppo, che sta congestionando il traffico che passa da Singapore, dove transitano tutte le navi cinesi dirette in Europa. I cinesi sarebbero favorevoli al taglio di un Canale thailandese della penisola malese, detto anche ‘Kra Canal’, largo 400 metri per evitare il transito nello Stretto di Malacca: un vecchio progetto mai andato in porto a causa di questioni con i separatisti musulmani e della contrarietà di Singapore che non vede evidentemente di buon occhio un canale che taglierebbe fuori la città-stato dal grande commercio mondiale.

C’è però un “ma” che non convince in questa stretegia cinese apparentemente pacifica. La scarsa sensibilità del governo cinese ad un tema che invece l’Occidente ritiene decisivo: la democrazia e il rispetto dei diritti umani. A titolo di esempio, basta citare la situazione di Hong Kong e quella degli Uiguri dello Xinjiang. La risposta cinese su queste accuse è sempre piccata e negazionista.
Il G7, che certamente non è un ente benefico, alla fine ha però adottato una strategia morbida nei confronti dell’invadente progetto Belt and Road. Dopo gli anni della presidenza Trump, che avevano in qualche modo trasformato il commercio mondiale in guerra dei dazi contro tutti, la strada da recuperare è ardua e il tempo perduto notevole, ma la scelta è quella di evitare lo scontro e di ritrovare una consonanza transatlantica e mondiale per trattare con i cinesi.

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