Credi nella vita, sempre

Immersi in una ricca metropoli o costretti a cercare da mangiare nella spazzatura, uniti ad un gruppo di amici o soli davanti al dolore, i Ragazzi per l’unità (i giovanissimi dei Focolari, dai 9 ai 16 anni), come tutti i loro coetanei, si trovano davanti ad avvenimenti imprevisti, delusioni, ingiustizie che possono apparire assurde, che cambiano i progetti, che sconvolgono gli schemi. Ci si può lasciare schiacciare o farne una pedana di lancio. Olga, Hong Kong “A che serve vivere se tutti un giorno dobbiamo morire? Per me fu questa la domanda alla quale, dopo la morte della mia cuginetta di 3 anni, non riuscivo a dare risposta. Intorno a me la ricca e popolatissima Hong Kong dove sono nata e cresciuta “. Parla lentamente Olga e scandisce con calma il suo cinese, quasi ad aiutarci nel penetrare in profondità l’ambiente nel quale è cresciuta. “Immersa in una società consumistica e senza grandi problemi, fino a quell’avvenimento non mi ero mai posta molte domande. Ad un tratto, però, mi accorsi che gli amici si accontentavano di una vita che non mi piaceva nella rincorsa al successo nello studio ed al divertimento ad ogni costo. Tra gli adulti vedevo persone interessate solo alla carriera in una ricerca di profitto economico fine a sé stessa. E così, piano piano, mi chiusi sempre più nel mio mondo. All’inizio nessuno se ne accorse, perché, fin da piccola, ero stata abituata a stare molte ore da sola e ad essere indipendente. I miei genitori, infatti, poiché lavorano tutto il giorno, mi avevano affidato, dall’età di 6 anni, ad un centro di accoglienza dove trascorrevo tutta la giornata. La sera, preso l’autobus, rientravo a casa. La mamma tornava molto tardi e ci vedevamo poco. Cenavo con il mio papà, ma, spesso, concentrati a guardare la tv, non avevamo né cercavamo occasioni di dialogo. Dopo la cena, preferivo chiudermi in camera. Ed i dubbi che mi portavo dentro toglievano senso al mio vivere. Ero stata battezzata, ma Dio era lontano dalla mia vita. “L’unica soluzione – continua – mi apparve allora la ribellione, contro tutto e contro tutti. Iniziai a non studiare più e, quando fui bocciata, decisi di abbandonare la scuola. Tutti erano preoccupati, ma neppure questo riusciva a scalfire il muro che avevo costruito con il resto del mondo. Fu in quel periodo che conobbi i Ragazzi per l’unità. La loro vita e, soprattutto, la loro gioia mi incuriosiva, mi attirava. Scoprire, attraverso di loro, che Dio è nostro Padre ed ama immensamente ciascuno, così come è, spalancò d’un tratto alla vita un altro orizzonte. Fu vedere tutto con altri occhi. Dovevo rispondere all’amore che avevo ricevuto da Dio e che adesso conoscevo. Ed iniziai ad amare a mia volta. Più che rifiutare quella famiglia così fredda, iniziai io a costruire quei rapporti veri che mi erano mancati. Prendevo al volo ogni occasione per parlare con i miei genitori ed ascoltare i loro consigli. Con la mamma il legame diventò profondo, fino a che, positivamente colpita dal mio modo di comportarmi, mi chiese il segreto del mio cambiamento. Le parlai di Gesù, diventato il mio più grande amico. Anche lei adesso condivide il mio stesso stile di vita. I dubbi che avevo dentro trovano soluzione ogni volta che, invece di chiudermi, mi dono agli altri e, se sbaglio, ricomincio. So che è lì la gioia di vivere”. Nick, Paesi Bassi “Io, ancora più della felicità, ho sempre amato moltissimo la libertà. L’ho cercata pensando che consistesse nel fare solo ciò che ci piace. Ma l’avventura vissuta qualche estate fa, riuscì a mettere in crisi questa certezza”. Ci porta in Olanda il racconto di Nick, che con i suoi 14 anni ci immerge nel mondo dello skateboard, il suo sport preferito. “Approfittando delle vacanze iniziai a passare molto tempo sullo skate. Rientravo a casa solo per mangiare e dormire e poi via di nuovo verso le piste. Le giornate passavano tra salti e nuove tecniche, corse e gare con gli amici. Eravamo un gruppo unito all’inizio, ma, con il passare dei giorni, i rapporti cambiavano. Si parlava male gli uni degli altri, l’aria era tesa. Ho visto girare droghe leggere ed hanno fatto la loro comparsa birre e liquori in quantità che alcuni si scolavano fino ad ubriacarsi. Tutto è avvenuto lentamente, senza che quasi ce ne rendessimo conto. Appariva normale che, finita una bottiglia, chi l’aveva bevuta la spaccasse sulla pista costringendo gli altri ad un pericoloso slalom tra vetri rotti. Alcuni bevevano così tanto da non riuscire a reggersi in piedi. Io non avevo ancora iniziato a bere, ma credo che non avrei resistito a lungo”. La situazione andò avanti fino a che un amico, spaventato di quanto stava accadendo, iniziò ad avvertire i genitori. “Un giorno, vedendo arrivare a casa nostra la mamma di uno dei ragazzi con i quali pattinavo che chiedeva di parlare con mia madre, capì quale sarebbe stato l’argomento. Le lasciai parlare in salotto e mi chiu- si nella mia stanza per riflettere. Sapevo di aver preso una brutta strada e di essere ad un bivio: a me, adesso al scelta. Quella compagnia mi attirava moltissimo, ma avevo davanti agli occhi, come un monito, come si erano ridotti tanti di loro abusando di droga o di alcol. Ricordavo bene anche che, tempo prima, con i Ragazzi per l’unità, avevo conosciuto un altro amico, Dio. Se volevo ritrovarlo dovevo lasciare quell’ambiente. È quello che ho fatto. Lo skate è rimasto il mio hobby preferito, ma senza farmi condizionare o scendere a compromessi. Ed ho trovato quello che cercavo: sono veramente libero”. Claire, Filippine “Più che vivere, avevo l’impressione di essere in un incubo”. A parlare è Claire delle Filippine, che ricorda così il rapimento dei suoi genitori da parte di un gruppo di ribelli, estremisti musulmani, del gruppo di Abu Sayyaf. “I miei genitori furono portati via insieme ad altri 18 ostaggi ed io non cessavo di chiedermene il motivo. Avevano sempre lavorato per gli altri e creduto nella fraternità universale che cerchiamo di costruire ogni giorno. Non possediamo grandi ricchezze, né mai abbiamo intrattenuto rapporti con i ribelli. Più analizzavo quella situazione, più stentavo a trovarvi un senso”. Intanto la notizia del rapimento, diffusa da telegiornali locali e nazionali di varie parti del mondo, aveva fatto il giro del globo. Tanti dei Ragazzi per l’unità, saputo che nel gruppo c’erano anche due persone dei Focolari le cui figlie condividevano il loro ideale di vivere per un mondo unito, non hanno esitato a contattare Claire e le sue quattro sorelle per esprimere solidarietà ed assicurare la loro preghiera. “Fax, lettere, messaggi e-mail hanno letteralmente invaso la nostra casa e le nostre vite – continua Claire -. Una famiglia di conoscenti ci ha accolto in casa per preservarci dall’assalto dei giornalisti ed un’amica ha interrotto le vacanze per starci vicina. Questo amore ci ha dato la forza di ricominciare. Avere tra noi l’amore reciproco che, come promette il Vangelo, può far meritare la presenza di Gesù tra noi, sarebbe stato il più bel regalo che potevamo fare ai nostri genitori. “Una settimana dopo – prosegue – la mamma è riuscita a fuggire. Ci ha raccontato che, lei e papà, non avevano smesso di amare tutti, ostaggi e rapitori. Sono rimasta sorpresa dal suo racconto: non c’era traccia di odio nel suo cuore. Anche io dovevo perdonare e pregare anche per chi ci aveva fatto del male, continuando a chiedere la liberazione di tutti i prigionieri. E mi è bastato attendere un’altra settimana per veder capitolare tutti miei dubbi sulle potenzialità della scelta di vivere la vita fino in fondo mettendo in pratica l’amore fino alle sue estreme conseguenze. Dopo 15 giorni dal rapimento, infatti, papà è stato liberato”. George, Tanzania Vestiti di stracci, malnutriti, senza dimora né famiglia: sono più di 3500 i ragazzi che vivono così per le strade della capitale della Tanzania. Li chiamano street-children, perché fin da piccoli non hanno avuto altra casa che la strada. Sempre alla ricerca di cibo, di un alloggio, di mezzi per organizzare la propria esistenza, sono costretti, per sopravvivere, a sviluppare tutte le strategie. E non è raro che si lascino trascinare in attività criminali. “Anche io ero uno di loro – spiega George -. A casa eravamo otto figli, poverissimi. Vivevamo in una capanna. Dopo la terza elementare fui costretto ad abbandonare la scuola e lavorai come pastore. Un giorno, riposando sotto un albero, ricordo di aver riflettuto a lungo. In quella situazione non ci sarebbe stata possibilità di riprendere la scuola: era meglio cercare fortuna altrove. Così me ne sono andato di casa. Mentre mi allontanavo da solo ricordo di aver pianto disperato chiedendo a Dio di non abbandonare né me né la mia famiglia. “Senza soldi e senza meta – prosegue -, ma sperando che la capitale mi potesse offrire qualche possibilità, sono salito sul treno per Dar-es-Salaam. Ho viaggiato due giorni senza cibo, nascosto sotto i sedili perché non sapevo come pagare il biglietto. La polizia mi ha scoperto e picchiato. Sono arrivato in città stremato. Iniziava così la mia avventura sulla strada tra dolori ed umiliazioni di ogni tipo. Ma nel cuore non era sparita la speranza di riprendere un giorno gli studi. Un giorno, mentre cercavo da mangiare tra la spazzatura, ho sentito alcune persone che parlavano del Dogodogo, un centro di accoglienza proprio per i ragazzi della strada. Ho chiesto loro di accompagnarmi lì. Ho trovato una casa che mi ha accolto, educatori che si sono interessati a me, una famiglia di 160 ragazzi di provenienze e religioni diverse che, come me, sono decisi ad iniziare una vita nuova. Mi hanno curato e nutrito. Dopo un mese, con grandissima gioia ho visto avverarsi il mio sogno: sono tornato sui banchi di scuola. Ce l’ho messa tutta per recuperare gli anni persi e ci sono riuscito con ottimi risultati. Vorrei diventare avvocato e lavorare per il rispetto dei diritti umani dei ragazzi”.

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