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Il “caso ungherese” dietro le apparenze. Pericoli e opportunità.
Il premier Viktor Orbàn

Un anno dopo la presidenza dell’Unione europea, l’Ungheria si fa ancora sentire. Il giorno seguente all’entrata in vigore della nuova Costituzione, il primo gennaio 2012, migliaia di cittadini ungheresi sono scesi in piazza per protestare contro quello che ritengono sia stato un attacco alla democrazia. Il 22 gennaio, ancora, altre migliaia di ungheresi hanno manifestato a Budapest a sostegno di Klubrádio, un’emittente di opposizione che, avendo perso il concorso per la distribuzione delle frequenze, a partire dal primo marzo non potrà più trasmettere. Molta meno attenzione da parte della stampa occidentale ha meritato la manifestazione filo-governativa, svoltasi lo stesso giorno: è stata una marcia silenziosa di decine di migliaia di persone (si stima la presenza di mezzo milione di manifestanti – il 5 per cento della popolazione) a sostengo del governo, con la partecipazione di rom e di alcune centinaia di ungheresi provenienti dai Paesi confinanti, con la volontà di riaffermare la vicinanza tra le scelte del governo e le istanze del popolo.

 

Cosa sta succedendo in Ungheria?

 

Durante il semestre di presidenza dell’Ue, pur in circostanze economiche e politiche difficili, l’Ungheria è riuscita a realizzare dei progressi significativi in tutte le sue priorità, contribuendo così in modo essenziale al rafforzamento dell’Europa. Ma già allora si era diffusa, soprattutto in alcuni Paesi occidentali, la preoccupazione che il governo conservatore, guidato da Viktor Orbán, disponendo di una maggioranza di due terzi del Parlamento, potesse cambiare le regole del gioco all’interno del Paese e potesse quindi rivelarsi un partner non facile per la comunità internazionale. Infatti, il governo magiaro ha sfidato le imprese multinazionali presenti sul territorio con un’imposta “eccezionale di crisi” e ha introdotto, per primo in Europa, una tassa sulle banche. Inoltre, ha suscitato clamore con la nuova Costituzione e con la legge sull’informazione.

L’attacco più forte all’Ungheria è arrivato proprio da alcune imprese straniere che si sono sentite minacciate per una perdita del loro  profitto. L’accusa formale è stata, però, quella di un mancato rispetto dei valori europei e delle regole della democrazia: sostanzialmente di aver introdotto una dittatura della maggioranza. L’Ungheria sarebbe un pericolo per l’Europa e il primo ministro magiaro, Viktor Orbán, è stato chiamato dittatore, un «piccolo Mussolini».

Anche i rappresentanti della Chiesa cattolica hanno preso posizione. Balázs Bábel, arcivescovo di Kalocsa, alludendo alla situazione dell’Ungheria nella Ce, ha affermato con toni forti: «La dipendenza persiste ancora in riferimento all’economia e alla cultura. I signori oppressori non usano eserciti, ma vogliono costringerci a obbedire con il potere del denaro».

 

Una democrazia senza democratici?

 

Gli oppositori dell’adesione all’Ue l’avevano predetto: l’Ungheria, dopo decenni di comunismo, avrebbe avuto bisogno di un programma di adeguamento graduale alla realtà europea. Non basta lasciare spazio al mercato globale o adottare istituzioni democratiche: bisogna considerare la realtà storico-sociale del Paese, giacché dei cambiamenti epocali richiedono l’acquisizione di una nuova mentalità e nuovi modelli di vita privata e pubblica. Cambiamenti di questo tipo richiedono tempo e pazienza.

L’Ungheria sta proprio vivendo questo faticoso travaglio di mutamenti sociali e culturali, prima che economici e politici. Merita attenzione, anche se non è del tutto condivisibile, la puntualizzazione di Ágnes Heller, intellettuale liberale ungherese e oppositrice del governo attuale, che afferma in un’intervista data a La Repubblica: «In Ungheria non abbiamo mai avuto veri partiti. Siamo stati una democrazia solo tra la fine della guerra e il ’49 della svolta staliniana. Gli ultimi vent’anni del comunismo di Kádár sono stati comunismo senza comunisti, poi venne una democrazia senza democratici, oggi abbiamo un governo di destra senza veri conservatori». In effetti, il Forum dei democratici ungheresi, protagonista dei cambiamenti politici nel 1989, oggi non è più nel Parlamento, mentre il Partito socialista, durante il suo governo moralmente e politicamente discutibile, ha perso la sua credibilità, e il partito liberale Szdsz si è disfatto per le sue lotte interne e per la corruzione.

Nel momento attuale non esiste nel Paese una sinistra consistente e degna di fiducia. L’opposizione al governo, fuori del Parlamento, è assicurata solo da alcuni intellettuali liberali che fanno sentire la loro voce in tutt’Europa e oltre. Il precedente governo liberal-socialista ha lasciato campo libero ai mercati globalizzati, senza difendere seriamente gli interessi nazionali. Di conseguenza, nell’arena politica, sono venute in rilievo le forze dell’estrema destra: Jobbik è riuscito a entrare in Parlamento e oggi supera nei sondaggi il Partito socialista, e i suoi tentativi di rinnovamento in tinta verde con l’Lmp (La politica può essere diversa). Fidesz, il partito di Orbán, alleato con Kdnp, la Democrazia cristiana, gode, dopo un anno e mezzo dalle elezioni, della fiducia dei suoi elettori. Sondaggi recenti rilavano che l’alleanza Fidesz-Kdnp otterrebbe ancora i due terzi dei voti.

Quindi, due decenni dopo il crollo del Muro di Berlino, in Ungheria non troviamo uno scenario di forze politiche equilibrate, in opposizione fra di loro, ma un fortissimo schieramento di centrodestra di fronte a raggruppamenti e gruppi d’interesse molto meno forti.

In questo scenario, “destra” e “sinistra” perdono il loro significato originale: il Partito socialista diventa il partito dei capitalisti, che non difende più gli interessi della gente, ma favorisce la fioritura dei mercati globali nel Paese. Di conseguenza si è formato uno schieramento di tutti coloro che puntano sui valori nazionali, religiosi e borghesi, nel senso nobile della parola. E Orbán nel 2010 ha stravinto.

 

La vulnerabilità dell’economia

 

Bisogna anche considerare la situazione economica del Paese. Un’economia aperta come quella ungherese, priva di un consistente capitale nazionale, è fortemente esposta alle dinamiche dei mercati globalizzati, agli interessi delle imprese multinazionali e alla speculazione. Nella crisi finanziaria che ha travolto tutta Europa, l’Ungheria si è trovata in una situazione particolarmente vulnerabile. Il Paese, un tempo meta preferita degli investitori occidentali, si è fortemente indebitato: l’82,6 per cento del Pil nel 2011. Il governo precedente ha coperto il deficit di bilancio pubblico con prestiti in valuta estera, che stanno diventando sempre più costosi, in proporzione all’indebolimento del fiorino; durante i suoi otto anni di governo, ha aumentato i debiti statali del 50 per cento. Ma anche tante famiglie, che hanno scelto di farsi prestare dalle banche denaro in euro e franchi svizzeri, hanno incontrato grosse difficoltà per pagare i mutui accesi. Il nuovo governo ha voluto tamponare tale crisi con numerosi provvedimenti radicali.

 

Determinazione e fretta

 

Bisogna considerare ancora un fatto. Il primo governo Orbán (1998-2002) ha fatto l’esperienza di non poter realizzare tutti i suoi propositi durante una legislatura e ha perso le elezioni. Ora ha voluto agire con urgenza e realizzare un’agenda politica molto fitta, affrontando diverse problematiche tutte insieme: più di 360 nuove leggi sono state finora varate, e così anche la nuova Costituzione. L’intensità del lavoro ha fatto saltare certe tappe del processo democratico, il dialogo con le parti sociali prima di tutto. Il risultato è stato senz’altro quello di una democrazia centralizzata.

Dobbiamo però ben guardarci dall’identificare un tale tipo di autoritarismo con una dittatura. Per valutare la valenza democratica di Orbán, basterebbe esaminare il suo comportamento durante gli otto anni di opposizione, quando è stato in grado di tollerare persino tutti i tipi di insulti e di non reagire con violenza alla brutalità usata dalla polizia con i suoi dimostranti nel 2006.

C’è, però, una crescente preoccupazione anche fra gli stessi sostenitori di Orbán, che il suo agire politico si allontani sempre di più dai valori costitutivi dello Stato di diritto e anche dalla concezione cattolica di uno Stato sussidiario. Crea problemi, prima di tutto, la nuova Costituzione, giuridicamente legittima ma priva del consenso più largo della popolazione. L’ex presidente della Repubblica, László Sólyom, ha affermato in un’intervista al settimanale Hvg: «Il processo costituente ha delle lacune politiche gravi, prima di tutto perché si basa sulla maggioranza di un solo partito».

È preoccupante «l’uso della Costituzione come mezzo politico nelle mani del governo», prosegue Sólyom, mentre la Costituzione dovrebbe essere la norma suprema e non la volontà dei due terzi della maggioranza. Anche la nuova legge sui media, per il resto ben fatta ed equilibrata ma oggetto di dibattiti accesi per i timori liberali di un eccessivo controllo statale, è stata modificata in alcuni suoi punti per essere conforme alle normative dell’Unione.

 

Political correctness

 

Roger Scruton, uno dei massimi rappresentanti del pensiero conservatore, in una recente intervista ha affermato: «Viktor Orbán ha un difetto notevole: non spiega con chiarezza il perché del proprio agire. Se lo facesse, tutti potrebbero accorgersi con sorpresa cosa sta succedendo in Ungheria». Fonti vicine al presidente del Consiglio confermano la carenza della comunicazione governativa.

Quando Orbán usa l’espressione: «Voglio un’Ungheria forte», ad esempio, pensa a un Paese d’identità forte, fiero, creativo, capace di rapporti paritari con gli altri Paesi, mentre quest’espressione potrebbe suscitare connotati come “aggressivo”, “generatore di conflitti”. Orbán, recentemente, è riuscito a chiarire la sua posizione, almeno parzialmente.

Mi viene in mente quanto disse Chiara Lubich all’incontro “Mille città per l’Europa” a Innsbruck, alla domanda di un giornalista ungherese: «Il mio consiglio – disse – è di sentirsi europei, ungheresi e nello stesso tempo europei». Da un simile dialogo, l’Ungheria potrebbe imparare a gestire le sue istituzioni per diventare sempre di più una democrazia partecipativa; ma anche l’Ue potrebbe seguire con attenzione il tentativo di edificare una democrazia basata sui valori dei padri fondatori dell’Europa unita.

 

 

Alcune voci

 

János Frivaldszky, professore di Filosofia del diritto all’università Cattolica di Budapest: «Dovremmo prendere sul serio il concetto della sussidiarietà, cioè che lo Stato è, fondamentalmente, una comunità di comunità. La prima comunità è, naturalmente, la famiglia. Le comunità locali potrebbero inoltre agevolare la formazione di agglomerati di imprese con il vantaggio della prossimità e dei legami familiari o semi-familiari. È un tipo di “economia delle comunità” che funziona bene in Italia e in altri Paesi. Queste comunità sono luoghi di creazione e trasmissione dei valori, della tradizione e delle buone pratiche. Il regime politico attuale, invece, punta sulla centralizzazione del potere, seguendo un concetto di Stato tipico dell’Ottocento e realizza obiettivi di per sé buoni con un certo volontarismo. In questo senso dovrebbe cambiare rotta».

 

Krisztina Fábián, dottoranda in giurisprudenza: «Noi, giovani giuristi guardiamo all’operato del governo alle volte con preoccupazione. Sono d’accordo con László Sólyom che l’equilibrio democratico sia in pericolo, ma non che sia un destino fatale. La nostra generazione porterà avanti la cultura giuridica e costituzionale presente nel Paese. Speriamo che certe norme giuridiche approvate troppo in fretta vengano ritirate, che la centralizzazione venga meno e che si formi, col tempo, un sistema multipolare».

 

Csaba Antalóczy, tra gli organizzatori della manifestazione filo-governativa: «Non avevamo previsto così tanta gente, avevamo calcolato circa centomila persone. Rispetto alla folla che si è radunata, eravamo pochi organizzatori e temevamo provocazioni. Ma non ho visto mai nella mia vita una marcia così pacifica, le persone sorridevano. È stata per me un’esperienza formidabile e un evento importantissimo per la nazione, non organizzato da un partito. Fatemi vedere un politico che dopo un anno e mezzo di governo goda della stima e dell’appoggio della popolazione in questa misura!».

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