Caso Cospito e il regime detentivo speciale 41-bis

Un contributo sul regime detentivo regolato dall'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario nei suoi aspetti generali e in applicazione al caso del detenuto Cospito
Caso Cospito
Caso Alfredo Cospito , assemblea studentesca alla Sapienza - Nella Foto: le scalinate di Lettere (Foto Cecilia Fabiano /LaPresse 02-02- 2023 Roma)

Da alcune settimane la vicenda del detenuto anarchico Alfredo Cospito è al centro dell’attenzione dei mass media, in quanto il predetto detenuto è in sciopero della fame da oltre 120 giorni per protestare contro la sua sottoposizione al regime detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis, 2° comma, dell’ordinamento penitenziario, disposta nel maggio 2022 dall’allora ministro della Giustizia Marta Cartabia. Il regime detentivo in questione è comunemente qualificato come “carcere duro”, ma tale denominazione è imprecisa e non coglie l’aspetto peculiare ed il tratto distintivo di questo regime, che è quello di impedire i collegamenti e i contatti del detenuto con l’esterno, ovvero con l’associazione criminale (di tipo mafioso o terroristico o eversivo) di riferimento, alla quale egli appartiene e di cui è un esponente di primo piano.

Questa ratio dell’istituto normativo di cui ci si occupa emerge con assoluta chiarezza dal testo della norma, ove si parla della ricorrenza di «gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica» e dell’esistenza di «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva»: infatti, la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario, in cui si sostanzia il regime carcerario di cui all’art. 41-bis, risponde appunto alla «necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento»(art. 41-bis, comma 2-quater, lettera a).

In sostanza, le restrizioni che costituiscono il contenuto del regime speciale in oggetto e che sono (soltanto) quelle «necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente» (art. 41-bis, comma 2) non sono e non possono essere fini a sé stesse, un mero irrigidimento delle condizioni di detenzione di quei soggetti colpiti dal decreto ministeriale di applicazione del regime in questione, bensì sono restrizioni ontologicamente finalizzate a prevenire qualsiasi contatto del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza.

Se così non fosse verrebbe meno la ragione giustificativa di questo strumento normativo, introdotto nel 1992 come misura eccezionale e temporanea volta a contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso, poi stabilizzato come misura ordinaria e non più a tempo, poiché restrizioni del regime carcerario fini a sé stesse si tradurrebbero in «trattamenti contrari al senso di umanità», vietati dall’art. 27 comma 3 della Costituzione, ovvero in «trattamenti inumani o degradanti», vietati dall’art. 3 Cedu (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali).

Del resto, fin dal 1997 la Corte costituzionale ebbe a precisare che le limitazioni imposte con il decreto applicativo del regime speciale di cui si tratta «non hanno e non possono avere natura e contenuto di anticipazione della sanzione penale, bensì solo di cautela in relazione a pericoli attuali per l’ordine e la sicurezza, collegati in concreto alla detenzione di determinati condannati o imputati per delitti di criminalizzata organizzata» (Corte cost. sentenza n.376 del 1997). Analogamente si è precisato che l’adozione del regime differenziato è subordinata all’«effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa»(Corte cost. sentenza cit.).

Ciò premesso sulla disciplina normativa di cui all’art. 41-bis ord. penit., veniamo a calare queste considerazioni generali sull’attualità della politica italiana e, più specificatamente, sulla vicenda del detenuto anarchico Alfredo Cospito.

Questi è stato condannato dalla Corte di Assise di Torino alla pena di anni 20 di reclusione per il delitto di strage ex art.422 c.p., per aver predisposto e collocato due ordigni esplosivi nei pressi della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano (fatto avvenuto il 2 giugno 2006) e tre ordigni in cassonetti della spazzatura a Torino (fatto avvenuto il 3 marzo 2007), ordigni che in entrambi i casi sono esplosi ma senza provocare alcun danno alle persone.

La sentenza di primo grado nei confronti del Cospito (e della coimputata Anna Beniamino, condannata alla minor pena di anni 16 e mesi 6 di reclusione) è stata confermata in appello, ma su ricorso del procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino la Corte di Cassazione ha ritenuto che il reato dovesse essere riqualificato come strage politica ex art. 285 c.p. (delitto più grave punito con l’ergastolo) ed ha rinviato gli atti alla Corte di Assise di Appello di Torino per la determinazione della pena.

Quest’ultima Corte, con recente ordinanza del 19 dicembre 2022, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione del codice penale (art. 69 quarto comma c.p., come modificato dall’art.3 legge 251/2005) che non consente al giudice, relativamente al delitto previsto dall’art. 285 c.p., di ritenere prevalente la circostanza attenuante, di cui all’art. 311 c.p. (lieve entità del fatto), sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, c.p. (applicata al Cospito).

In sostanza, in base alla disposizione censurata dalla Corte di Assise di Appello di Torino, pur in presenza della circostanza attenuante sopra menzionata, al Cospito dovrebbe essere comminata la pena dell’ergastolo, in quanto l’attenuante può essere dichiarata equivalente ma non prevalente sulla recidiva reiterata aggravata. Sulla questione di costituzionalità in esame dovrà pronunciarsi, come sempre avviene, la Corte Costituzionale e il giudizio nei confronti del Cospito è sospeso fino alla pronuncia del Giudice delle leggi, prevista nel prossimo mese di aprile.

Si attendeva in questi giorni, invece, la pronuncia di un altro giudice, la Corte di Cassazione, chiamata a decidere sul ricorso proposto dall’interessato avverso la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma, che confermava l’applicazione nei suoi confronti del regime di cui all’art. 41-bis ord. penit.: le aspettative del detenuto e del suo difensore verso la decisione della Cassazione erano notevoli, dopo che è stato comunicato il parere espresso al riguardo dalla Procura Generale presso la Corte di Cassazione, parere favorevole all’annullamento con rinvio del provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Roma.

Contro le attese, però, la Suprema Corte ha deciso, all’udienza del 24 febbraio 2023, per il rigetto del ricorso (si devono aspettare le motivazioni per valutare tale decisione): di conseguenza, il detenuto ha dichiarato che continuerà lo sciopero della fame e non assumerà più integratori, con il rischio che le sue condizioni di salute già precarie precipitino in breve tempo. Il rischio è concreto e non astratto, aggravato dalla circostanza che nel caso di sciopero della fame «non ci sono eccezioni alla regola della necessità di consenso a ogni trattamento sanitario, anche nel caso che il rifiuto porti alla morte» e «casomai venisse in mente di imporre al detenuto la nutrizione e l’idratazione artificiali – va ricordato che la legge li qualifica come trattamenti sanitari» (Vladimiro Zagrebelsky, La forza dello Stato e il caso Bobby Sands, su La Stampa dell’1 febbraio 2023).

Sullo sfondo di questa vicenda, complessa dal punto di vista giuridico e delicata sul piano umano, ci sono i contrasti e gli scontri tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, in cui i toni hanno superato la misura del dibattito parlamentare e del leale confronto tra avversari politici, rendendo evidenti i segni di una strumentalizzazione politica della vicenda giudiziaria di cui si discute. Vicenda sulla quale non si devono avere posizioni preconcette o politicamente orientate, bensì posizioni dettate dalla più corretta e ragionevole interpretazione giuridica, oltre che dal buon senso.

Anche sul piano più generale della disciplina di cui all’art. 41-bis ord. penit. non si devono avere posizioni preconcette o puramente ideologiche, in quanto «all’esigenza di una verifica, di un collaudo o messa a punto non si sottrae neppure il 41-bis, che andrebbe riconsiderato tanto nei suoi presupposti criminologici alla stregua di conoscenze empiriche aggiornate, quanto nelle sue condizioni di legittimità sotto il profilo giuridico-costituzionale» (Giovanni Fiandaca, Il carcere da salvare, su Il Foglio del 10 febbraio 2023 ).

Si auspica, in conclusione, che la vicenda del detenuto Cospito abbia un esito ragionevole e non tragico e che tutti gli attori della vicenda, dal ministro della Giustizia Carlo Nordio fino agli organi giudiziari, facciano la loro parte per consentire un esito siffatto.

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