Con l’avvicinarsi dell’estate diventa sempre più evidente il problema del sovraffollamento carcerario denunciato più volte nel nostro Paese. Proponiamo perciò un’intervista rilasciata per il dossier Carcerati da Alfredo Mantovano nella sua qualità di magistrato, vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino e direttore di L-Jus. Un parere che assume un particolare valore adesso che il magistrato riveste un ruolo strategico nel governo Meloni quale sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Partiamo da un criterio di intervento secondo umanità. Come esposto nel sito web ufficiale «Il Centro Studi Rosario Livatino, costituitosi nel 2015, a 25 anni dal sacrificio del giudice siciliano, è un gruppo di giuristi – magistrati, avvocati, docenti universitari, notai – che traendo esempio dal magistrato agrigentino ucciso per mano mafiosa nel 1990, del quale è in corso il processo di beatificazione – studia temi riguardanti in prevalenza il diritto alla vita, la famiglia e la libertà religiosa in un’ottica di coerenza col diritto naturale».
Cosa significa questo riferimento così forte al diritto naturale?
Rosario Livatino, al quale ci rifacciamo, oltre all’attività giudiziaria che lo ha esposto alla vendetta della mafia, nella sua vita ha svolto due interventi pubblici molto importanti. Uno sul ruolo del giudice e l’altro sul rapporto tra fede e diritto mettendo sempre in evidenza, in maniera laica e non confessionale, l’importanza del diritto naturale come fondamento della legge positiva. Un riferimento alla natura della persona umana, che non è modificabile a seconda delle maggioranze parlamentari o dal volere dei giudici.
Ponendoci dunque nell’esame della questione carceraria nell’ambito vasto del diritto alla vita come bisogna valutare la situazione odierna in termini di mancanze di strutture e carenza di percorsi di reintegrazione sociale?
In rapporto a tutta la popolazione residente in Italia, la popolazione carceraria è fra le più basse al mondo, in termini assoluti e percentuali. Per affrontare il sovraffollamento negli istituti di pena italiani non è sufficiente un solo rimedio. Vanno anzitutto resi operativi i trasferimenti dei detenuti cittadini di altri Paesi extra europei e anche europei. Penso agli accordi esistenti con l’Albania, ma anche a quelli di Stati che fanno parte dell’Unione europea come la Romania, ovviamente con esclusione dei luoghi nei quali si pratica la tortura o la pena di morte. È un lavoro che richiede molto impegno, ma che non è stato affrontato finora con la giusta decisione dai vari governi. Non immagino che ciò riuscirebbe a trasferire rapidamente fuori Italia un terzo dei detenuti (tanti sono i non italiani presenti nelle nostre carceri), ma si comincerebbe a ragionare. C’è poi la questione della carenza del personale.
In che senso? Sappiamo che i turni sono molto intensi e usuranti..
Come in tutte le amministrazioni pubbliche, molti agenti penitenziari sono meridionali e tendono a non allontanarsi dai luoghi di origine: la conseguenza è che troppi istituti di pena del Nord restano sottoutilizzati. Ma sono tante le voci su cui lavorare: in altre Nazioni, per es., si arriva da persone libere al processo, anche per reati gravi, pagando una cauzione, e solo in baso di condanna si va in carcere. Da noi accade esattamente il contrario, perché al cittadino vengono applicate troppo spesso le misure cautelari, a cominciare dal carcere; poi o si viene assolti o, se arriva la condanna, talora si esce dal carcere per sospensione o della pena o della sua esecuzione. Tante custodie preventive seguite dal proscioglimento costituiscono una profonda ingiustizia, oltre a costringere lo Stato a pagare gli indennizzi per ingiusta detenzione: non guasterebbe un uso più attento delle misure cautelari.
E se tutto ciò non avviene o si rivela insufficiente, cosa resa da fare?
Fra i terreni su cui lavorare vi è la costruzione di nuove carceri che rispettino criteri di sicurezza e umanità. Misure come l’indulto parziale o totale hanno il respiro corto e rischiano di agevolare anche autori di reati gravi, senza garantire la giustizia.
Perché non incentivare misure alternative alla detenzione?
Se la situazione lo consente, sono da preferire; rispetto a 20 anni fa, il quadro è notevolmente mutato: penso al lavoro sostitutivo di ripristino in caso di danneggiamento di edifici. Un po’ più di coraggio in questa direzione non farebbe male, perché condurrebbe a una maggiore efficacia rispetto alla mera afflizione costituita dalla detenzione. Ciò che manca è una visione di sistema che tenga conto della complessità dei problemi da risolvere. Per questo motivo si cercano soluzioni più semplici per sfoltire le carceri che lasciano la situazione così come è.
Quale è il suo parere in merito alla pena dell’ergastolo?
L’ergastolo di fatto non esiste: non si va oltre i 27 anni di reclusione, a meno che non si commettano gravi delitti stando in carcere. Ma anche i 27 anni sono teorici perché l’ordinamento penitenziario rende fruibili prima i permessi premio o il regime di semidetenzione con attività esterna giornaliera. Il “fine pena mai” con l’immagine della porta che si chiude per sempre è una cosa del passato. Eliminare la condanna dell’ergastolo senza una revisione generale del sistema delle pene condurrebbe ad anticipare ancor prima l’uscita dal carcere pure per reati gravissimi, con danni conseguenti in termini di sicurezza e di compromissione dell’immagine dello Stato.
Oggi come oggi si respira un clima che porta alcuni a chiedere la reintroduzione della pena di morte…
Proprio per non incentivare reazioni irrazionali bisogna assicurare alla pena un tratto di serietà. Ha senso attenuare lo stato detentivo man mano che ci si avvicina al termine della pena, evitando tuttavia, come talora accade, che una persona condannata all’ergastolo lasci il carcere dopo 15 anni… Si tratta di rispettare equilibri delicati.
Il carcere appare un sistema inutilmente afflittivo per persone fragili che non possiedono gli strumenti di difesa che possono esibire gli affiliati delle organizzazioni malavitose. Come si può rimediare in tali casi?
Va garantito l’esercizio effettivo del diritto di difesa, e questo avviene già adesso col gratuito patrocinio che permette al difensore di essere retribuito. Il giudice è tenuto a valutare la provenienza e il contesto di determinati reati. Non è tuttavia il sistema carcerario il luogo idoneo a farsi carico di diseguaglianze che maturano prima, e quindi esigono interventi di prevenzione nelle zone a maggiore rischio di criminalità.
Quindi ricapitolando in maniera pragmatica si potrebbero risolvere alcuni dei problemi più imminenti del carcere?
Ridurre il numero dei detenuti applicando, nel pieno rispetto dei diritti umani, gli accordi con i Paesi di provenienza di alcuni di loro. Esercitare maggiore fantasia legislativa davanti a reati come il piccolo spaccio o al danneggiamento, con adeguate misure alternative al carcere. Portare maggiore attenzione sull’uso della custodia cautelare, che attualmente interessa quasi un terzo degli ospiti degli istituti di pena. E poi investire per garantire un numero adeguato di agenti penitenziari e per incentivare la disponibilità a lavorare al Nord, come avviene da tempo per i magistrati destinati a zone disagiate.
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