Boltanski. L’arte che non dimentica

Continua a Bologna una mostra e un progetto d’arte diffusa che riflettono sul valore dell’assenza  

Nell’atrio del MAMBO si sta come sardine. Gli spazi generosi del museo bolognese non bastano a contenere il pubblico che, nonostante il caldo torrido, non se ne va, a costo di stare fuori dall’entrata, sotto il portico o in strada. Tutti vogliono esser testimoni del ritorno di Christian Boltanski in città. Sono passati vent’anni dalla sua mostra a Bologna e, nel frattempo, il suo nome è diventato una colonna del tempio dell’arte contemporanea mondiale. Come è successo? Si capisce presto.

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L’ingresso in mostra è alla spicciolata. Le luci si abbassano e il chiacchiericcio tipico del vernissage resta fuori dalla porta. Si procede in silenzio, con rispetto, a tratti persino con mestizia. E si va lenti; la sostanza artistica è troppo densa per essere attraversata come un semplice momento di piacere. Ad accoglierci è il sonoro amplificato del battito cardiaco dello stesso artista. Le lampadine sospese si accendono e si affievoliscono seguendone il ritmo. Su una tenda a filamenti è proiettato il ritratto di Boltanski. Il suo volto canuto (casse 1944) si alterna al suo volto bambino. Il percorso ha inizio proprio varcando la soglia di quel volto, un’azione fisica che si fa subito mentale e spirituale.

E, lasciato lo sguardo dell’artista alle proprie spalle, di fronte e attorno a noi si apre una cortina di sguardi. Gli occhi di un altro, gli occhi di un’altra che ci toccano, ci guardano, ci attraversano. Quaranta veli diafani e quasi trasparenti che, a loro volta, si fanno attraversare per condurre ad uno sguardo successivo. L’occhio come specchio dell’anima ci è restituito in una successione di immagini in bianco e nero e a tratti sgranate. Frammenti fotografici che vengono dal passato, residui di volti, di persone, di vite. È l’assenza che fa da protagonista. Nel silenzio e nella penombra il suo essere diventa quasi assordante, raggiunge il fondo dello stomaco con un tonfo sordo e si imprime sulle coscienze in tutta la sua gravità.

È ancora l’assenza che ci fa leggere le altre opere in mostra, siano essi i volti e le flebili lampadine che li accompagnano, i cassetti e gli schedari, gli abiti logori. «Il vestito usato parla di qualcuno che era lì ma non c’è più. L’odore, le pieghe sono rimasti, ma non la persona». Le stesse parole dell’artista ci guidano a cercare nella sua arte le tracce di una memoria tragica. A volte si tratta di un passato molto prossimo, come nei sette metri di cumulo
piramidale realizzato con le coperte termoisolanti dorate.
Immediato è il riferimento agli sbarchi dei migranti, a storie private di ogni identità sotto l’etichetta della “questione migranti”. L’opera di Boltanski ci riporta invece al viaggio, al naufragio, al salvataggio solo momentaneo che lascia subito alla propria fuga una folla di fantasmi di cui non sapremo più nulla. E a tintinnare su lunghi steli è sempre l’assenza. Il campo di campanelli giapponesi oscilla in video sopra al manto reale di erba e fiori falciati. Un sacrario leggero e fragile, un omaggio alle vite il cui profumo e il cui colore sono già nell’atto di perdersi.

Incontrando amici, colleghi e studenti, al saluto nessuno osa far seguire il classico “Come stai?”. Tutti consapevoli che sarebbe una nota stridula in questo momento, in questo luogo. Questi sono il momento e il luogo in cui l’arte ci mostra ciò che non c’è più. Tracce di vite per sempre raggrumate in un’immagine o in un oggetto. Senza assumere la superbia di un feticcio, queste opere ci lasciano il senso di ciò che passa, il peso di ciò che è stato, il prezioso di ciò che a volte ritorna a ricordarci quel che ha valore. Così, invece di chiedere “come stai?”, per quel momento basta guardarsi negli occhi e cogliere tutto il valore e il sacro di chi abbiamo dinnanzi, sapendo che c’è adesso.
Anime. Di luogo in luogo. MAMBO, Bologna, fino al 12 novembre 2017

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