Banlieue, un rompicapo per la Francia

Rallentano le violenze delle rivolte scatenate dalla morte di Nahel, a Nanterre. Ma la crisi di una società a due velocità rimane più che mai attuale
Francia (AP Photo/Aurelien Morissard, File)

Le cifre sono impressionanti: 3400 arresti, 684 agenti e pompieri feriti, 5 mila veicoli incendiati, un migliaio di edifici e alloggi dati alle fiamme, un esercito di 45 mila poliziotti e gendarmi schierati in difesa dell’ordine costituito, 250 stazioni delle stesse polizia e gendarmeria attaccate dai manifestanti, più di un miliardo di danni per le imprese danneggiate.

Un bollettino di guerra, che ha costretto più volte il presidente poco amato Emmanuel Macron a rivedere la propria agenda internazionale per essere vicino al “suo” popolo, che però non lo sente “suo”. Oggi, 4 luglio, riceve più di duecento sindaci per capire, assieme a loro, che sono i bravi dello Stato più vicini alla gente, che cosa non va nella convivenza delle periferie delle grandi città, spesso trasformate in luoghi di degrado urbano e umano.

Tra dieci giorni si festeggerà la ricorrenza della presa della Bastiglia, festa dell’orgoglio repubblicano, momento privilegiato in cui la laicité à la française trova la sua massima celebrazione.

Sarà un’occasione particolare, quest’anno, perché le istituzioni dovranno capire come conciliare quel che forse è inconciliabile: un’enorme e crescente domanda di sicurezza che sale dalla popolazione integrata (non dimentichiamo i sommovimenti dei gilet jaune), i tre quarti o quattro quinti della società, e la domanda di senso della vita che sale da quelle fasce di popolazione, soprattutto gli adolescenti, che faticano a mettere assieme una qualche proposta di futuro plausibile, che si nutrono di degrado, che non si riconoscono nella Repubblica e nei suoi messianismi economici e securitari.

Testa di ponte di questo quarto (o quinto) della popolazione non integrata è un esercito assieme anarchico e organizzato di adolescenti, in massima parte di origini musulmane e in una buona percentuale di tradizione maghrebina, che non esitano a sfidare poliziotti e gendarmi, ad attaccare la dimora di un sindaco, a tenere sotto scacco forze di polizia, a bruciare quanto capita a tiro, a saccheggiare banche, negozi e supermercati.

Le origini del malessere di questa che in altra epoca sarebbe stata chiamata “gioventù bruciata”, ma che andrebbe invece identificata come “gioventù che brucia”, sta probabilmente, come scrivevo qualche giorno fa nel modello di integrazione che la Francia ha elaborato nel suo percorso post-imperiale e post-coloniale, e per certi versi ancora neo-coloniale (economico), soprattutto in Africa francofona.

Secondo questo modello, per coloro che decidono di vivere nell’Esagono (così i francesi amano definire il territorio della madre patria) la propria cultura di origine ha da essere sostituita da quella laica-repubblicana della Francia, anche in materia religiosa; fenomeno che, quello religioso, secondo la legge va assolutamente circoscritto nella stretta vita privata, cioè esattamente il contrario di quanto proclama la prospettiva islamica, ancor più di quella cristiana, oggi timidissima, che propugna al contrario la pertinenza pubblica della fede.

Come conciliare queste due tendenze, quando la colletta pubblica per il poliziotto che ha ammazzato il giovane Nahel, comunque un piccolo delinquente, ha superato di cinque volte quella per la vittima di origini maghrebine? O quando le ronde organizzate dall’estrema destra affiancano le forze dell’ordine nella repressione? In che modo evitare che le posizioni si radicalizzino?

Come evitare che il probabilissimo arrivo della destra lepenista al potere, anche per una sinistra radical chic prigioniera delle sue visioni ideologiche senza però più un’ideologia di riferimento, consegni il Paese a una libertà securitaria, a un’eguaglianza selettiva, a una fraternità scivolata fatalmente nell’oblio?

E sarà mai possibile offrire adeguate possibilità di crescita umana e sociale alle centinaia di migliaia di sedici-diciassettenni che vivono tra i continui limiti posti da una società a tratti razzista, e le praterie illusorie dei social, nei quali navigano giorno e notte e che li spingono a comportamenti devianti?

A dire il vero, lo Stato francese di soldi ed energie ne ha messi e ne mette a carrettate nelle banlieue, per arrivare a risolvere un rebus che è la principale minaccia contro la convivenza pacifica nell’Esagono. La società civile francese, ricca di genialità e generosità, ha fatto e fa molto: l’esplosione nelle periferie del 2005, che tanti ritenevano destinata a trasformarsi in una sorta di guerra civile, in realtà è stata domata, nonostante le derive terroristiche di Charlie Hebdo e del Bataclan del 2015.

Ma ora una bavure policière, cioè un errore della polizia, ha fatto riesplodere il malcontento, e le misure prese da vent’anni, anzi trenta, dai governi di destra e di sinistra succedutisi al potere, manifestano i loro limiti.

Forse perché sono le premesse che difettano, non contemplando una società multiculturale e interculturale, se vogliamo fraterna, ma una società integrata: o così o nulla, o accettate la nostra laicità o non c’è soluzione possibile. Il pragmatismo a suo modo accogliente e tollerante dei Paesi mediterranei – e in parte della Germania – non ha molto posto in Francia, almeno così sembra. Il tempo dirà.

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