Autobiografia di una nazione

A 25 anni dalle stragi del 1992, la criminalità organizzata si espande nell’economia. Società e istituzioni alla prova

Dal 23 maggio al 19 luglio di ogni anno Palermo diventa la sede morale della Repubblica, il fondamento costruito sulle macerie di due attentati di stampo bellico orditi da una strategia mafiosa che resta ancora da decifrare. La foto dei due magistrati siciliani, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è un’icona capace di risvegliare il meglio in ciascuno di noi, anche perché si tratta di storia niente affatto remota pur se, per ora, non ha bisogno del tritolo.

La quotidiana lotta contro il potere  mafioso  appartiene alla biografia nazionale come testimonia la stessa vicenda dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, fratello di Piersanti, presidente della regione Sicilia, ucciso da “cosa nostra” mentre si recava a messa il 6 gennaio del 1980.

Su questa realtà complessa, Città Nuova ha avuto per anni come guida e testimone credibile Roberto  Mazzarella.  In  un forum del 2013 ci diceva che in sostanza la mafia non è altro che «un disperato e insaziabile bisogno di denaro». In questo senso si coglie l’importanza della relazione che l’attuale procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo, Roberto Scarpinato, ha fatto a Bruxelles nel marzo 2011, nell’ambito del dibattito del Parlamento europeo sulla «strategia europea per combattere il crimine organizzato transnazionale».

Come doverosa premessa Scarpinato afferma: «Il mondo del crimine transnazionale e il mondo delle persone normali sono due facce della stessa medaglia, anzi si alimentano a vicenda. Ciò che ci illudiamo di combattere fuori di noi, è già dentro di noi, dentro la quotidianità della nostra vita, anche se non ne siamo consapevoli». In particolare il magistrato parla di un capitalismo mafioso perché «accanto alla categoria delle vittime, esiste anche una moltitudine di imprenditori che ha utilizzato il metodo mafioso per conquistare posizioni di dominio nel mercato». Il sommerso della corruzione, quantificabile con un fatturato annuale di 60 miliardi di euro, è lo strumento di penetrazione delle mafie nelle istituzioni e nell’economia: «Il nuovo capitalismo mafioso si presenta con il volto rassicurante di manager e colletti bianchi».

 

La traccia dei soldi

Una visione che si riallaccia al passaggio della famosa intervista rilasciata l’estate del 1982 a Giorgio Bocca dal prefetto di Palermo, generale Carlo Alberto Dalla  Chiesa,  pochi  giorni  prima di morire assassinato: «La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso… ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere».

È questo il fronte più avanzato delle indagini intese a “seguire la scia dei soldi” secondo la celebre  espressione  ripetuta da Falcone. In questo senso ancora una volta recentemente Scarpinato, procuratore di Palermo, non ha remore ad indicare che nelle stragi del ’92, «assieme a personaggi come Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano e altri boss che perseguivano interessi propri di Cosa nostra, si mossero altre forze che utilizzarono la mafia come braccio armato, come instrumentum regni e come causale di copertura per i loro sofisticati disegni finalizzati a destabilizzare la politica». In questo senso vanno considerate le anomalie che quella vicenda ci ha consegnato, a partire dalle polemiche sulla scomparsa dell’agenda personale di Borsellino alla mancata immediata ispezione del covodi Salvatore (Totò) Riina dopo l’arresto, nel 1993, di colui che è tuttora considerato il capo dell’organizzazione criminale. Secondo Franco Roberti, procuratore generale della Direzione nazionale antimafia, negli ultimi 20 anni ci sono stati risultati indiscutibili, a partire dalle migliaia di beni confiscati alle mafie, ma la repressione penale non ha impedito l’espansione del fenomeno avvenuta grazie alla vulnerabilità dei mercati finanziari e del sistema economico imprenditoriale, ai paradisi fiscali, alle infiltrazioni nelle istituzioni locali. La stessa emergenza del terrorismo, secondo Roberti, sottrae, come già è avvenuto in passato, risorse dalla lotta alle mafie che crescono silenziosamente, anche se un esperto di strategia militare come il generale Carlo Jean ha detto che «dove c’è criminalità organizzata, non c’è mai terrorismo». La storia italiana, purtroppo, come sappiamo, è, invece, contrassegnata da inquietanti alleanze di interessi tra questi due mondi.

Massomafie, Chiesa e società

Dalle istituzioni un segnale in controtendenza è arrivato dalla Commissione parlamentare antimafia che da agosto 2016 sta cercando, con una serie di audizioni dei vertici delle varie logge e obbedienze massoniche, di ottenere gli elenchi degli iscritti per verificare la contaminazione denunciata da Scarpinato in Sicilia e dal magistrato Gratteri in Calabria, tra massoneria deviata e cosche criminali. L’attenzione al fenomeno delle cosiddette “massomafie” viene in evidenza quando si considera, ad esempio, che nella provincia di Trapani, luogo di origine di Matteo Messina Denaro, coinvolto con la linea stragista mafiosa e autore di crimini efferati, esiste, come nota Rosi Bindi, presidente della Commissione antimafia, «la più grande concentrazione di logge massoniche in rapporto alla popolazione di qualunque parte del nostro Paese».

Esistono tante realtà sociali impegnate in Italia contro le mafie, tra queste Libera che con la giornata della memoria delle vittime innocenti di mafia, pone le radici di una cultura radicalmente alternativa a quella mafiosa. Su questa scia va segnalata la “Carta di responsabilità e impegno. Scelte evangeliche per un cammino di liberazione”, sottoscritta l’8 settembre 2016, inizialmente da oltre 30 tra sacerdoti e religiosi della Chiesa italiana a Fondi, città del basso Lazio ad alta infiltrazione mafiosa. E proprio all’interno del grande mercato ortofrutticolo di Fondi, al centro dell’attenzione delle inchieste per la presenza di interessi congiunti tra cosche ’ndraghetiste, clan dei casalesi e quello dei corleonesi, che si è svolto a giugno il convegno della diocesi di Gaeta dal titolo “La Chiesa ascolta la strada”. Centinaia di persone a segnare fisicamente una presenza sul territorio con la consapevolezza espressa da don Luigi Ciotti all’inizio dell’incontro: «La lotta alla corruzione e alle mafie ha bisogno del noi». La partita è tutta da giocare.

 

Basta all’antimafia di cartone

Intervista a Vito Lo Monaco, presidente Centro studi “Pio  La Torre”

a  cura  di Maddalena Maltese

Vito Lo Monaco presiede da circa 13 anni il Centro studi Pio la Torre, dedicato al sindacalista e parlamentare siciliano assassinato dalla mafia il 30 aprile 1982. La produzione di ricerche e studi sul rapporto strutturale che lega mafia, classi dirigenti ed economia è uno dei fiori all’occhiello della sua storia, assieme al progetto educativo sulle mafie per gli studenti delle scuole superiori e medie che via web approfondiscono storie e strategie del fenomeno criminale: 110 mila le presenze di quest’anno in rappresentanza di 104 istituti. Da qualche mese al Centro è stato assegnato un bene confiscato alla mafia, a 10 anni dalla vittoria del bando. «E questo lo dobbiamo alla legge Rognoni-La Torre, senza la quale non sarebbe nato il maxiprocesso, il pool antimafia e il sequestro dei beni ai boss».

Facciamo un punto sulla situazione attuale delle mafie: un fenomeno in crisi o al contrario un mutevole camaleonte? La mafia si è trasformata da potere al servizio della classe politica in classe dirigente essa stessa. Nell’analizzarla non possiamo prescindere dal modello ereditato da Pio La Torre, dove non ci si fermava allo studio del braccio armato di Cosa nostra, ma si guardava al rapporto organico tra politica, economia, società. È questo rapporto organico alla base, ad esempio, di Mafia capitale, dove organizzazioni esterne al territorio siciliano hanno ripreso questo tipo di modello. Oggi è l’imprenditore milanese che chiede di far affari sostenuto dalla ‘ndrangheta per vincere la gara d’appalto e sbaragliare la concorrenza. In questi anni sono stati inferti colpi duri all’organizzazione, ma la mafia si è sommersa e diffusa su tutto il territorio nazionale, vedi i casi di Liguria, Lombardia, Emilia e anche a livello europeo. L’ultimo rapporto del Parlamento di Bruxelles censiva tremila associazioni criminali, ma non si sta agendo in maniera proporzionata utilizzando, ad esempio, il modello legislativo italiano o istituendo una Procura europea in grado di coordinare le varie polizie su questo fronte.

La mafia si evolve e la giustizia no? Non direi che la giustizia non si sia evoluta, anzi lo Stato è molto attento e vigile. Piuttosto direi che è la politica a non evolversi perché la lotta alla mafia è anzitutto una scelta politica e invece il tema sembra uscito dall’agenda del governo pur avendo una legislazione di primordine e invidiata a livello mondiale. Le mafie non possono essere valutate solo sul fronte del racket e dell’estorsione poiché di fatto dirigono il traffico di armi, di droga e gli stessi flussi migratori e condizionano lo sviluppo di aree del mondo. La globalizzazione ha favorito la loro finanziarizzazione e alla finanza non interessano da che direzione provengano i soldi, se sono riciclati o leciti. Prendiamo la ’ndrangheta, ad esempio. Negli anni, grazie al traffico di droga si è imposta come gruppo imprenditoriale quotato in borsa. La camorra, nonostante gli arresti e la decapitazione dei boss, controlla l’agro-alimentare dal Nord al Sud: Verona, Fondi, Vittoria, sono mercati nelle loro mani.

Si avverte una certa stanchezza nel parlare di mafia… Questa stanchezza lascia che l’antimafia si fossilizzi in riti, anniversari, dove si accarezzano gli “eroi” e se ne fanno dei santini, costruendo di fatto un’antimafia di cartone. Non ci si può definire antimafiosi, se di fatto non si lavora per il cambiamento economico e politico, per la sconfitta della povertà, della diseguaglianza, dell’ingiustizia sociale e della corruzione: tutti fenomeni che favoriscono l’attecchimento delle mafie. Servono politiche sociali, serve occuparsi ancora di Mezzogiorno e serve credibilità nella classe politica che lotta contro la mafia ma mantiene nelle sue fila condannati e indagati, e addirittura ci scende a patti. Siamo stanchi di retorica ma non di impegno.

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