Autobiografia di un transatlantico

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La mia storia comincia a Monfalcone il 21 novembre del 1964. Là sono nato, o sono stato costruito, come dicono gli uomini. Mi hanno battezzato in quello stesso giorno. Per noi navi la nascita si chiama varo ed è, tanto per intenderci, una scivolata in mare lungo lo scalo. Un grande splash e ci si accorge di galleggiare. Il battesimo precede la scivolata. Una bella ragazza o una signora importante ti spaccano una bottiglia in testa. Ho saputo che di questi tempi le cose non si fanno più così: niente scivolata in mare. Le navi vengono costruite a pezzi in un bacino. Quando i pezzi sono tutti saldati si riempie il bacino e la nave galleggia. Ho detto sono nato, ho infatti un nome maschile: Eugenio: eppure, essendo nave, sono costretto ad essere femmina. A ship is a she. Lo dicono gli inglesi da qualche secolo. E loro in mare ci sanno fare. Ma in questa storia ho deciso di usare il maschile. Gli inglesi non possono più impedirmelo. Non esisto più. Oltre al sopruso della mia imposta femminilità, appena ho cominciato a guardarmi attorno mi sono reso conto di avere un nome un po’ strano: Eugenio C. Ma cos’era quella C? Le navi concorrenti avevano nomi importanti, di personaggi che tutti conoscevano in Italia e nel mondo. Solo molto più tardi i miei padroni si sono accorti che quella C non mi rendeva giustizia e fui ribattezzato (senza bottiglia in testa) Eugenio Costa, un degno personaggio di quella stirpe. Mi hanno voluto dire che quelle iniziali erano comunemente usate dagli armatori genovesi per risparmiare pittura: tante lettere in meno sullo scafo. La memoria della mia esistenza risale al momento in cui le prime lamiere venivano saldate in quel cantiere di Monfalcone. In quei tempi le navi in cantiere crescevano in verticale: dalla carena alle ordinate, alle murate, alle sovrastrutture. Finalmente mi hanno montato il cuore, un cuore potentissimo: la somma dei cuori di 55 mila cavalli! E poi le ciminiere. Non una dietro l’altra, ma appaiate come due gemelle. E su, su fino all’albero che arrivava in cielo. E poi mi hanno dipinto di bianco. Non finivano mai di spennellare. Ero lungo duecentoventi metri. Ed è arrivato il giorno in cui mi è stato chiesto di far vedere cosa sapevo fare. Mi sono accorto quella mattina che il mio cuore batteva forte e che mi muovevo sempre più velocemente. I miei occhi, situati all’estrema prora, (li chiamano, chissà perché, occhi di cubia) vedevano l’acqua scorrere sulle due fiancate come due precipitosi torrenti.Marciavo a ventotto nodi! Ma è solo una settimana dopo, da un porto chiamato Genova, che doveva iniziare la mia vita di lavoro. Ero stato destinato a trasportare attraverso un oceano oltre milleduecento passeggeri in vari porti di un continente meridionale. Li ho imparati e memoria i nomi di quei porti. L’ultimo si chiamava Buenos Aires e si raggiungeva a fatica attraverso un fiume fangoso dal nome immeritato: Fiume d’Argento. Più di duecento viaggi in vent’anni. Ho visto sparire le navi importanti. Sono finite in maniera dolorosa: bruciate da un incendio, vendute e finite all’ancora in porti remoti, relegate a far da caserma in rade deserte. Io sono sopravvissuto per tanti anni ancora, anche quando si è saputo che nessuno voleva più partire per quel continente meridionale. O, se dovevano andarvi, lo facevano attraverso il cielo su navi volanti, molto più veloci e senza la fatica di dover spingere tutta quell’acqua con la prora. Gli uomini allora hanno scoperto per me un altro mestiere: da transatlantico che ero mi hanno trasformato in cruise ship, in nave da crociera. Dovete sapere che gli uomini in quegli anni si sono finalmente resi conto di vivere in un gran bel mondo. E ha preso loro gran voglia di conoscerlo viaggiando per mare. E hanno cominciato a imbarcarsi sulle navi e a navigare da un porto all’altro per una settimana, per un mese o addirittura per tre attorno a questo nostro globo, tornando, alla fine, sempre a casa propria. Sono stati, quelli, anni di gloria. Non ho mai dimenticato quei due giri del mondo. Il comandante mi ha condotto per la prima volta, e con me tutti i novecento passeggeri, in un Paese lontano e misterioso chiamato Cina. Un Paese dove nessuno era stato da moltissimi anni. In quel loro porto cinese chiamato Shangai nessuno aveva mai visto in mare nulla di più bello del sottoscritto. Non potete immaginare l’orgoglio di una nave bella., bianca e piena di bandiere che domina una città. Alla fine del secondo di questi viaggi ho avuto l’opportunità di dare una mano a quel mio comandante. Avevamo appena lasciata un’isola chiamata Madeira, quando l’oceano è impazzito. Non avevo mai visto nulla di simile. Ci siamo trovati in mezzo a un golfo che io conoscevo poco. Era rispettato e temuto da chi andava per mare. Lo avevo attraversato solo d’estate, col bel tempo di luglio, diretto ai porti del Nord. Sul ponte, in quell’uragano, si parlava di libeccio, un vento mostruoso che alzava il mare. E non potevo trattenermi dal rollare. Trentasei gradi, dicevano sul ponte. E tutto dentro di me si staccava, si rovesciava. Gli stabilizzatori, specie di palette che sporgevano dalla parte più profonda della carena, erano impotenti. Il comandante aveva ordinato ai passeggeri di non lasciare le loro cabine. Pena… la ghigliottina. La punizione del golfo è durata cinquanta ore. Ho trovato riparo a ridosso di un’isola bella – Belle Ile, come dicono i francesi. Ho saputo con orgoglio di aver ricevuto i complimenti dalla più importante organizzazione navale del mondo, i Lloyds. Per essere riuscito ad attraversare senza danni quel golfo nella tempesta. La più spaventosa degli ultimi vent’anni. Il comandante che mi ha portato intorno al mondo e attraverso quella tempesta mi ha lasciato nel 1987. Alla fine del suo ultimo viaggio, all’arrivo a Genova, mi ha consegnato al suo successore con queste parole: She’s all yours, è tutta tua. Ho continuato per altri anni a viaggiare, con le mie due C sulle ciminiere, attraverso mari ed oceani dal Mediterraneo all’Atlantico, dall’Estremo Nord all’estremo Sud fino a un continente di ghiaccio chiamato Antartide. Ed è venuto il momento più triste della mia vita: sono stato venduto. Ho sentito di non contar più niente. Avevo poco meno di trent’anni. Dicono siano tanti per una nave. Mi è stato cambiato nome. Niente più C sulle ciminiere: sono divenuto la Edinburgh Castle e ho lasciato Genova per sempre. Un nuovo padrone mi ha dipinto tutto di rosso. Big Red Boat II è stata la mia ultima stravagante trasformazione. Dopo qualche tempo – il mondo era appena entrato nel nuovo secolo – sono stato abbandonato. Per più si quattro anni sono rimasto legato ad una squallida banchina in un’isola minore delle Bahamas. A quel punto non mi fregava più nulla di essere maschio o femmina. Ho avuto ancora un momento di speranza. Ho saputo – anche le navi sanno – che un gruppo di uomini di buona volontà intendeva riportarmi a Genova perché vi rimanessi ormeggiato per sempre come l’ultimo dei transatlantici. A ricordo di una grande era nella storia della navigazione. Non se ne è fatto niente. Costavo troppo per la città del maniman(1) Sono stato infatti condotto in una orribile spiaggia al di la di due oceani e fatto a pezzi. Condotto un corno! Ci sono andato io con quel quarto di cuore che mi era rimasto. È stato come rinascere. Come quella prima uscita a Monfalcone. Anche se i miei occhi non vedevano il mare scorrere veloce sulle mie fiancate. Adagio, adagio. Era un viaggio che volevo non finisse mai. La mia ultima spiaggia è stata Alang, in India. Il mattatoio della navi. Non sono più una nave ma continuo a vivere in ciascuno di quei ferri, grandi e piccoli in cui sono stato suddiviso e riutilizzato: la carrozzeria di un automobile, la lamiera di una nuova nave, una macchina da guerra, una scatola di sardine. Ognuna di queste creature ha una vita propria: trasporta, uccide, contiene. Ma io mi trovo assai meglio in un piccolo pezzo di lamiera che riposa sulla scrivania delle persone che mi hanno voluto bene. Una di queste, che mi ha portato attorno al mondo, tutte le volte che siede alla scrivania, mi afferra, mi trattiene e mi sposta di qualche centimetro. Chissà perché. È come una carezza.

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