Armi e lavoro. Uscire dal ricatto

Il Sulcis Iglesiente ha diritto a produzione di vita e non di morte. Non si può accettare il silenzio o il relativismo di chi pone in contrasto il diritto al lavoro con quello alla vita. Verso la Conferenza stampa del 21 giugno a Roma
AP Photo/Hani Mohammed

I lavori non sono tutti uguali.  Nelle cosiddette professioni di cura (medico, insegnante, infermiere, psicologo, operatore sanitario, ecc.)  ciò è particolarmente evidente: si tratta di lavori che sono rivolti a supportare la vita, la crescita, o la salute di persone bisognose di aiuto. Ma anche altri sono chiaramente utili alla società: produrre il cibo, cucinare, pulire o costruire case, scuole, ospedali o biblioteche, commerciare cose utili, produrre beni artistici o culturali; e la lista potrebbe continuare a lungo.

Non è in discussione, poi, l’importanza delle attività orientate alla difesa dei beni comuni, delle persone o dell’ambiente; esse talvolta richiedono l’uso delle armi, ma è moralmente lecito quando è proporzionato alla difesa che si deve ottenere e mai diretto ad offendere o a limitare senza motivo la libertà altrui.

In ogni caso è comunque necessario interrogarsi sulla qualità del proprio lavoro, ed anche sulla modalità e sullo spirito con i quali lo svolgiamo. Anche il più bel lavoro del mondo, se lo si fa di malavoglia, con scarsa attenzione o addirittura in maniera corrotta, può diventare una maledizione per noi e per gli altri.

Diverso è il caso di lavori che sono funzionali a vere e proprie strutture di peccato, come per esempio l’industria dell’aborto (anche quando eseguito legalmente) e quella della guerra (come nel caso della Rheinmetall, la società tedesca che controlla la RWM).

Stiamo parlando di organizzazioni che causano o contribuiscono a causare ogni anno migliaia di morti innocenti. 87639 feti uccisi nel ventre materno nel 2015 in Italia sono l’effetto del primo, e varie migliaia di vittime civili in 2 anni quello delle bombe prodotte dalla RWM.

È difficile riuscire a sostenere un’opinione diversa: nello Yemen, così come in tanti altri sfortunati paesi in tutto il mondo, sta avvenendo una carneficina. La particolarità è che a provocarla sono ordigni costruiti a pochi chilometri dalle nostre case in una fabbrica realizzata con soldi pubblici, e autorizzata da enti locali e governi.

Tutti complici di un Paese che, se non fosse la potenza che è, nessuno avrebbe problemi a definire “Paese canaglia”, dato che, oltre a gettare le “nostre” bombe su civili ed ospedali, non evita di rifornire l’Isis. Come si fa a pensare che il diritto al lavoro significhi essere moralmente autorizzati a produrre armi di questo tipo e con questo scopo?

Nell’enciclica  Sollicitudo rei socialis, Giovanni Paolo II scrive che “la produzione delle armi è un grave disordine che regna nel mondo odierno”; e nella Populorum progressioPaolo VI afferma che “La pace non si riduce a un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento d’un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini.”

Ognuno di noi è personalmente responsabile della pace. Sono le nostre azioni quotidiane che la costruiscono o la compromettono, ed il Catechismo della Chiesa Cattolica ci mette in guardia rispetto alle imprese belliche: “La ricerca di interessi privati o collettivi a breve termine non può legittimare imprese che fomentano la violenza e i conflitti tra le nazioni e che compromettono l’ordine giuridico internazionale. (CCC, 2316)”

A chi sostiene che le bombe “se non le fanno qui, le faranno altrove” è facile rispondere che la civiltà avanza proprio così: anche piaghe sociali come schiavitù, apartheid e lavoro minorile sono state abolite prima solo in un’area geografica, poi (quasi) dappertutto. Un giorno saremo orgogliosi di aver bandito per primi quelle produzioni mortifere.

A chi ritiene che nel “caso” RWM si contrappongano il diritto al lavoro ed il diritto alla pace, entrambi sacrosanti, dico proprio che non sono d’accordo.

L’esigenza invece è una sola ed a questa deve rispondere la politica: i cittadini del Sulcis-Iglesiente ed in particolare i dipendenti dell’RWM, hanno diritto ad un lavoro vero, di quelli che generano vita nel presente e costruiscono futuro e non portano distruzione, né all’ambiente, né, tantomeno, alle persone innocenti, che siano locali o yemenite. Di quei lavori di cui si possa parlare con i propri figli ed anche andarne fieri perché contribuiscono a portare pace, benessere, cultura e sviluppo e non morte, distruzione e vergogna. A casa propria o nel paese altrui.

È per questo che nasce il Comitato Riconversione RWM. Il suo scopo è ottenere con ogni mezzo pacifico la riconversione di quei posti di lavoro verso attività sostenibili sotto i vari punti di vista, senza mai perdere di vista l’obiettivo di offrire una possibilità di riscatto e di libertà a quanti, a causa di necessità personali e degli inganni della politica che hanno fatto sembrare “normale” un lavoro inaccettabile, sono caduti nella trappola. A questo scopo il Comitato sta valutando la possibilità di costituire un Fondo di Solidarietà per i Lavoratori RWM finalizzato a supportare percorsi di uscita e di riconversione.

*Portavoce del Comitato per la riconversione della fabbrica RWM di Domusnovas in Sardegna

(Nella foto Ap un padre yemenita mostra la bomba che ha ucciso il figlio)

qui dal minuto 5 l’intervista radiofonica all’autore di questo contributo

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