Altri quattro anni

L’America ha scelto, democraticamente e chiaramente, il suo presidente. Il rispetto è dovuto a chi ha vinto, dimostrando di avere la fiducia della maggioranza, e a chi ha perso e lo ha ammesso, presto e bene, risparmiando così al paese uno strascico di polemiche e di incertezze. Queste elezioni hanno visto una forte partecipazione, sia al voto sia alla militanza politica: e questa dimostrazione di vitalità degli ideali e della coscienza dell’importanza della politica da parte dei cittadini non può che fare piacere a chi ama sinceramente questo paese. Un paese che mette insieme sotto lo stesso principio di libertà coloro che si sentono liberi nella convivenza ricca di possibilità, ma anche anonima, delle grandi metropoli, e chi si sente libero solo se ha il deserto intorno e conosce nome e cognome di tutti quelli che incontra per la strada. È gente che crede nelle stesse cose, ma in modi profondamente diversi; così diversi, i modi, che anche le cose in cui si crede finiscono per cambiare. L’analisi del voto e della situazione che esso apre è di estremo interesse anche al di fuori degli Usa. Degli aspetti internazionali ci occuperemo in un prossimo articolo. Guardiamo, ora, a quelli interni. Due elementi si stagliano sugli altri e corrispondono, in effetti, a due notizie. Una buona, l’altra meno. È da sottolineare però che entrambe riguardano l’America, e non, separatamente, i repubblicani o i democratici. È stata la vittoria della paura: quella di cambiare il generale quando la guerra è in corso, e anche se ha sbagliato. A molti cittadini statunitensi è bastato costatare che, dopo l’11 settembre, il territorio americano non è più stato colpito dai terroristi: che i problemi, anche per il resto del mondo si siano in realtà moltiplicati, è cosa che tocca molto di meno. Che gli Stati Uniti non siano in grado di affrontare tutti i punti critici del mondo come hanno fatto con l’Iraq, che dunque la strategia di Bush sia, anche dal punto di vista della sicurezza internazionale, da abbandonare, è passato in secondo ordine. Questa è la cattiva notizia. Da questo punto di vista, c’è solo da sperare che il secondo mandato di Bush veda una correzione di rotta, e che le voci più responsabili e moderate all’interno del partito repubblicano – una volta conseguita la vittoria che ha costretto a fare corpo col presidente, e davanti alla realtà provocata dalla guerra irachena – possano prevalere sulla strategia finora perseguita, insostenibile sia politicamente che economicamente. È stata, anche, la vittoria di alcuni importanti valori. E questa è la vera, buona notizia, quella sulla quale si può lavorare e costruire un nuovo scenario. Ma guardiamoci dal farne un discorso di partito, perché non lo è. Esistono, fortunatamente, precisi indicatori che ci permettono di dare una corretta interpretazione dei valori in gioco. In 11 stati gli elettori, oltre al presidente, dovevano scegliere anche se proibire i matrimoni tra persone dello stesso sesso; non si trattava affatto di proibire la scelta di chi intende vivere in una coppia omosessuale, o di ottenere il riconoscimento di alcuni punti specifici richiesti dalle coppie omosessuali, e che possono iscriversi fra i diritti intoccabili del cittadino; la questione era, invece, di decidere se l’unione omosessuale possa diventare un matrimonio, cambiando radicalmente l’idea stessa di famiglia. In tutti e 11 gli stati gli elettori si sono pronunciati a favore della famiglia tradizionale, basata sulla coppia formata da un uomo e una donna. Questi pronunciamenti sono considerati un indicatore della più generale adesione all’etica sessuale, alla bioetica e al rispetto per la vita tipici della cultura e della fede cristiane. I risultati dei referendum stabiliscono che questa adesione non è affatto patrimonio dei repubblicani ma, anzi, è realmente trasversale ai due schieramenti. Lo dimostra il fatto che il voto contrario ai matrimoni omosessuali è stato sempre nettamente superiore al voto repubblicano. Per fare degli esempi: in Arkansas Bush ha avuto il 54 per cento dei voti, ma il referendum ha ottenuto il 75 per cento; su cifre simili troviamo anche la Georgia, il Kentucky, il North Dakota, l’Oklahoma; nel Mississipi, addirittura l’86 per cento ha appoggiato il referendum, ma solo il 60 per cento ha scelto Bush. Anche se si ammettesse che tutti i repubblicani ab- biano votato contro i matrimoni omosessuali (ma così non è), ciò significa che almeno il 20 per cento degli elettori, pur votando per il partito democratico (e, dunque, quasi la metà dei democratici), ha manifestato valori etici – nei campi considerati – comuni con quelli dei repubblicani. Molto rivelatori, infine, i voti della California e dello Utah. In California, i voti per Kerry sono stati il 55 per cento, ma il 59 per cento ha votato a favore dell’utilizzo delle cellule staminali degli embrioni, in un referendum appoggiato dal governatore repubblicano Schwarzenegger. Nello Utah, dove Bush ha vinto col 71 per cento dei voti, i contrari al matrimonio tra omosessuali sono stati solo il 66 per cento: ciò significa che una cospicua parte dei repubblicani della California e dello Utah non è affatto allineata con la morale cristiana. La visione, proposta da molta stampa, di un partito repubblicano che difende la vita e la morale tradizionale, e di un partito democratico fondamentalmente amorale, è dunque del tutto falsa. Così come è stato davvero poco prudente chi riteneva determinante il voto pro-Bush allo scopo di difendere i princìpi dell’etica della vita: le leggi non vengono certo decise dal solo presidente, ma dai singoli stati e dal Congresso, che devono più direttamente tenere conto dei sentimenti dei loro elettori: e questi sentimenti i referendum ce li hanno fatti conoscere. E in verità, allora, si dovrebbe parlare di alcuni valori degli americani, e non di valori repubblicani. Piuttosto, i democratici dovrebbero cominciare una revisione profonda non tanto delle loro strategie elettorali, quanto della forza delle idee che il partito trasmette. Sul piano dei valori morali legati alla sessualità e alla difesa della vita, appare evidente che l’élite democratica non rappresenta bene i propri stessi elettori: certamente non rappresenta adeguatamente quel 48 per cento dei cattolici che hanno scelto Kerry; e davvero non si capisce perché un cattolico democratico possa, all’interno del partito, gridare a gran voce l’etica sociale cattolica, ma debba abbassare il volume quando si parla di aborto e matrimonio. Ripartiamo da questi valori, allora. Certamente; ma per imparare a comprenderli in tutta la loro estensione e portata. Chi è contrario all’aborto non può essere favorevole alla pena di morte; chi crede nella dignità della vita non può non preoccuparsi per i cittadini più poveri; chi ascolta il Vangelo ogni domenica non può non adoperarsi per costruire la fiducia e la pace fra i popoli. All’indomani delle elezioni, vincitore e sconfitto si sono appellati all’unità della nazione. Altrettanto importante, a noi sembra, è l’unità della coscienza, che non può accettare alcuni valori e rifiutarne altri, quando nascono dallo stesso annuncio cristiano: è assurdo spartirsi i valori tra repubblicani e democratici; è necessario, invece, imparare ad essere uniti su valori che, alla prova dei fatti, sono risultati condivisi al di là degli schieramenti. Perché non lavorare, allora – e una nazione religiosa si presta proprio a questo – per estendere la condivisione degli altri valori etici, quelli che riguardano la pace e lo sviluppo dei popoli? Quattro anni ancora era lo slogan dei sostenitori di Bush; sì, quattro anni ancora, da usare bene, per sviluppare una più profonda consapevolezza di tutto ciò che è richiesto dal fatto di credere in un Dio che è amore, e che guarda con la stessa pietà chi muore sotto le Twin Towers e chi muore di fame.

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