Alberto e il dado dell’amore

Era un pomeriggio di sabato, il 19 ottobre scorso, quando il dottor Alberto Neri Fernández partì in auto da Bauru, stato di San Paolo, diretto a Votuporanga. Aveva appena dato il suo contributo ad un seminario sull’etica sociale presso la locale università ed ora, col pensiero, anticipava l’arrivo in quella città distante circa 200 chilometri dove, da medico impegnato in una importante ricerca sull’Aids, si sarebbe trasformato in fratello maggiore, padre, educatore per alcuni gen 4, i bambini dei Focolari. Portava con sé, per l’appunto, un grande dado sulle cui facce erano impressi motti come “amare tutti”, “amare per primi”, “amare i nemici”, “farsi uno” e così via: quel “dado dell’amore” che i gen 4 di ogni nazione conoscono così bene. Purtroppo i suoi piccoli amici l’avrebbero aspettato invano: Alberto non sarebbe mai arrivato a destinazione. Immediatamente la polizia iniziava le sue ricerche. L’auto venne ritrovata qualche giorno dopo, abbandonata sul ciglio di una strada, ma di quel medico focolarino di origine uruguayana nessuna traccia: forse un sequestro da parte di malviventi per far curare qualcuno di loro? Sarebbe stato un caso non insolito. Ancora angosciosa attesa. Poi, a quindici giorni dalla scomparsa, la tremenda notizia che il corpo di Alberto era stato rinvenuto in una piantagione di canna da zucchero, le mani legate dietro la schiena e sgozzato come un agnello. Lo avevano confessato i suoi stessi assassini, due giovani militari dell’esercito divenuti rapinatori che, a una settimana di distanza da quel delitto efferato, avevano fatto un’altra vittima. Con la sua generosità abituale, Alberto si era fermato per dare loro un passaggio: un gesto che gli era costato la vita, tanto più assurdo in quanto con sé aveva solo qualche diecina di reais (l’equivalente di 10 euro). Un “martire” dunque, come già lo definisce qualcuno? Sarebbe improprio parlare di “odio alla religione” da parte degli uccisori, ma è pur sempre vero che “la morte accettata per amore – secondo sant’Alfonso de’ Liguori – uguaglia il martirio”. E Alberto aveva imparato da tempo, ormai, che l'”arte di amare” il fratello – sì, proprio quella riassunta nel dado ritrovato nella sua auto – esige morte di sé, del proprio io. Era nato 39 anni prima in Uruguay, nei pressi di Salto, città di frontiera con l’Argentina. Non ebbe un’infanzia facile, a motivo delle privazioni (era di famiglia povera) e soprattutto della tragica morte del padre col conseguente abbandono dell’amato mondo contadino: fu infatti necessario trasferirsi in città, dove la mamma lavorò sodo come domestica, per tirar su i figli, due maschi, dar loro una istruzione adeguata. Fu in questo periodo che, recandosi a scuola, davanti allo spettacolo quotidiano dei prigionieri politici obbligati ad un lavoro forzato, andò maturando in lui un senso di reazione ad ogni forma d’ingiustizia. Il suo sogno: diventare medico per emanciparsi dalla povertà e al tempo stesso servire i più poveri ed emarginati. Sarebbe stato il suo contributo a migliorare la società. Con in cuore questo desiderio, un giorno, sfogliando una popolare rivista dal barbiere, Alberto lesse dell’esistenza di una cittadella dove era legge l’amore scambievole, il vangelo: sorgeva a O’Higgins, in Argentina. Entusiasmato dalla scoperta e volendo verificarla sul posto, una settimana dopo era già lì. Conoscere la realtà dei Focolari rappresentò per lui, quindicenne, l’incontro col Dio vivo, un Padre che alleviava la durezza delle passate esperienze e nel contempo gli schiudeva un affascinante progetto di vita: collegarsi con tanti per fare del mondo intero un’unica famiglia. A Montevideo, dove con grandi sacrifici alternò studi universitari e lavoro, fu uno dei più responsabili ed attivi tra i giovani del movimento. Così fino alla laurea. Per il suo tirocinio in ospedale l’unica sede possibile era Tacuarembò, poco ambita perché a 400 chilometri dalla capitale. Fu l’occasione invece per diffondere l’ideale dell’unità anche in quella città. Alberto, infatti, si rese subito utile nella chiesa locale, dando vita ad una piccola ma tuttora fiorente comunità focolarina. Questa disponibilità preparò il terreno per rispondere alla successiva chiamata a donarsi a Dio nel focolare. Lo fece con slancio e senza più voltarsi indietro, da allora: con una accettazione a volte eroica delle sofferenze dovute al suo temperamento impulsivo, deciso e, si direbbe, intransigente, nel trattare con gli altri. Così ogni fallimento diventava, grazie al profondo, personale rapporto con Gesù abbandonato, occasione per ricominciare con amore più puro e rilanciarsi oltre i propri limiti umani. Nell’aprile del ’96 partì per Fontem, nel cuore del Camerun occidentale, con l’unico desiderio di mettersi al servizio di tutti, particolarmente nell’ospedale costruito dal movimento per sanare l’altissima mortalità infantile. Inserirsi non gli fu facile. Aveva una grande esigenza professionale e non si sentiva preparato per affrontare ciò che richiedeva una struttura del genere. Quell’esperienza comunque evidenziò in lui una più attenta sensibilità verso l’uomo, un’aspirazione alla bellezza che avrebbe poi trasmesso in pitture ingenue, forse, ma indice di quel suo segreto tendere alla purezza, alla semplicità, a Dio stesso. L’anno successivo troviamo Alberto di nuovo a Montevideo, accanto alla mamma gravemente ammalata. Nell’assisterla non solo si limitò alla salute fisica: seppe infatti comunicarle – per lo più attraverso dipinti pieni di vita e di colore – l’ esperienza fatta in Camerun, e con essa l’ideale che aveva trasformato la sua vita. Veramente fu, per così dire, “madre” spirituale della sua stessa madre. Ma l’Africa, o meglio quanti laggiù potevano aver bisogno del suo aiuto, erano sempre nel suo cuore. Per questo, anche, accettò la sfida di organizzare una mostra dei suoi quadri “africani” che servì a raccogliere fondi per l’ospedale di Fontem. E lì si preparava a ritornare, dopo la morte della mamma. Prima però la trasferta a Bauru, per specializzarsi in malattie tropicali presso la vicina facoltà di Botucatu. Si resta stupiti costatando quello che, nei due anni di permanenza in Brasile, Alberto è riuscito a portare avanti oltre al proprio lavoro di medico e ricercatore: il suo zelo apostolico spaziava dai giovanissimi alle famiglie, agli anziani, ai colleghi, ai carcerati, ai seminaristi, ai sacerdoti… viaggiando per incontrarli fino al Mato Grosso; era inoltre impegnato in iniziative ecumeniche e in una commissione diocesana per l’educazione. È un dato di fatto che in Brasile come in Camerun, è riuscito a conquistare il cuore della gente di ogni condizione con la sua capacità di “vivere l’altro” in modo semplice, gioioso, umile, con la sua comprensione verso tutti, lui che invece, con sé stesso, era molto esigente. Davanti ad una esistenza così promettente e così assurdamente stroncata verrebbe da chiedersi “perché”. Eppure l’unica risposta capace di dare un senso al sacrificio di Alberto viene dal vangelo, quando propone l’immagine del seme il cui destino è “morire” per moltiplicarsi. Lo confermano le espressioni commosse e grate di tante persone alle quali Alberto ha passato il testimone. Quel dado dell’amore ritrovato nella sua auto – quasi un invito a giocarsi tutto per Dio, come lui ha fatto – sta già passando di mano in mano. DALLE SUE LETTERE “Trovo nella pittura un modo in più per donare, per dialogare, per esprimere quello che Dio costruisce in me. Tramite queste forme e colori, vorrei riflettere sull’incontro di ogni uomo con l’Assoluto, l’amore che, penetrando l’anima, la illumina, le imprime il movimento liberatore, la trasforma pian piano in sé (luce e amore)” (24.12.’95). “… in quanto alla mia vita spirituale, ho seguito il tuo consiglio che mi è servito molto quest’anno:”Sbagliare tante volte e ricominciare tante volte (ad amare)”. Ho riflettuto seriamente sulla mia consacrazione a Dio. Con pace ho scoperto tanti punti da migliorare e ho deciso di dare il mio sì a Gesù abbandonato… ” (settembre ’96). “…tante prove sono sparite e la mia anima assomiglia alla mia amatissima foresta africana, che, dopo una benefica pioggia, riappare ricca di tanti germogli e fioriture. Sento come un vento forte che spazza in me tutto ciò che non è ancora divino, per fare fiorire Lui solo” (29.10.’99). “Ogni volta che devo lavorare nell’ambulatorio dell’Aids scopro quanto queste persone sono un vero volto di Gesù abbandonato e solo questo basta per motivarmi a dare la vita concretamente per loro… Dio lavora senza sosta nella mia anima e questo mi fa sentire molto amato da lui; pian piano riesco a superare alcuni traumi rimasti dopo questi anni duri, ad assumere e migliorare alcuni difetti, come espressione del mio desiderio di corrispondere al suo amore” (probabilm. 2001).

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons