Africa, che fare?

Eppure i veri fatti eclatanti sono sotto i nostri occhi: una decina di conflitti in corso, trenta milioni di malati di aids (75 per cento del totale mondiale), la recrudescenza della malaria, un debito estero che in alcuni paesi è superiore al prodotto interno, situazioni di carestie in atto o annunciate, sei milioni di rifugiati e venti milioni di profughi, che in parte cercano di emigrare verso un’Europa le cui politiche diventano più restrittive. Perché sta succedendo? L’analisi storica ci aiuta a considerare gli ultimi quaranta anni, con la decolonizzazione, l’indipendenza e la formazione dei nuovi Stati africani, come un periodo di travaglio condizionato da scelte che hanno tenuto in poca considerazione le realtà culturali, etniche e geografiche dei popoli che hanno ottenuto l’indipendenza. Strutture statali centralistiche ed autoritarie si sono sovrapposte a realtà locali basate sull’autonomia dei villaggi e delle tribù, in cui l’autorità si basa su legami diversi da quelli democratici formali, oltretutto spesso messi in discussioni da elezioni poco trasparenti. Invece di valorizzare il fattore etnico come elemento di ricchezza, di diversità per un’unità articolata, lo si è represso o utilizzato per giustificare conflitti che hanno in realtà più profonde ragioni economiche o di semplice ricerca del potere, accompagnata da corruzione diffusa. I pastori hema e i contadini lendu del Nord-Est del Congo calpestano in realtà un suolo ricco di oro, coltan e tanto petrolio, vero interesse dei paesi vicini coinvolti nel conflitto: Ruanda e Uganda. Un recente studio della Banca Mondiale ha evidenziato lo stretto legame fra lo sfruttamento illegale delle risorse naturali e i conflitti in corso, come nel caso dell’autofinanziamento di gruppi di ribelli attraverso la vendita di diamanti, dimostrando che impegnandosi seriamente nella regolazione del mercato la situazione potrebbe migliorare significativamente. Discorsi simili si possono fare per il business delle armi leggere a cui ormai si riesce ad avere accesso direttamente sul mercato privato, mentre nei tempi di guerra fredda bisognava stringere alleanze con Stati stranieri. I dati empirici della Banca Mondiale sottolineano, proprio per l’Africa, che c’è uno stretto legame fra povertà e conflitti, potremmo dire fra sviluppo e pace. Sotto questo profilo le responsabilità internazionali si chiamano cappio del debito estero, mancato mantenimento degli impegni di aiuto allo sviluppo, liberalizzazione del commercio internazionale che non tiene in sufficiente considerazione la debolezza delle strutture economiche africane. Cosa fare? Non ci sono soluzioni semplici. La comunità internazionale è chiamata ad uno scatto di orgoglio e a ridare centralità nel breve periodo alla situazione in Africa, fino a quella ingerenza umanitaria che, condotta secondo le regole e l’egida delle Nazioni Unite, è da considerare uno sviluppo positivo del diritto internazionale a salvaguardia dei diritti umani, ossia della popolazione inerme e vittima delle violenze. Nel lungo periodo è soprattutto sui temi dello sviluppo integrale (educazione, salute, commercio, lotta alla povertà) che si gioca la vera partita, la vera guerra preventiva da condurre. L’Unione Europea può avere un ruolo importante, rifacendosi alle sue stesse origini, alla Dichiarazione Schuman del 1950 che enunciava la responsabilità e gli obblighi dell’Europa verso il continente africano. Sotto il profilo della cooperazione istituzionale va sostenuto il nuovo organismo continentale, l’Unione Africana (UA), e i programmi di sviluppo economico che si stanno avviando, a condizione che non rimangano accordi di vertice, ma realizzino una maggiore consultazione delle popolazioni interessate, anche valorizzando le istituzioni sociali tribali. Non dimentichiamoci che anche noi possiamo fare molto: una società civile che ascolta il grido degli africani e lo amplifica come stimolo ai propri Governi potrebbe contribuire grandemente a sviluppi positivi. Non rassegniamoci all’evidenza!

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