25 bandiere per l’Europa

Eravamo ancora sulle barricate quando nel ’57 nasceva con i Trattati di Roma il primo nucleo della Comunità europea. Erano barricate ideologiche sulle quali ci arrampicavamo da studenti in un continente spaccato in due da quella cortina di filo spinato, terreno minato e garitte che aveva sostituito la vecchia Maginot, ma divideva ora sull’Elba e sul Danubio i paesi democratici da quelli del socialismo reale. La configurazione assunta dai sei paesi fondatori (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo) veniva definita Europa carolingia, perché di quella ricalcava i limiti geografici. Ma era ancora una zona di libero scambio, un mercato comune che nei cosiddetti paesi liberi aveva un contraltare nell’Efta, guidata dalla Gran Bretagna e, nell’Est, una brutta copia nel Comecon, il mercato comune dei paesi socialisti. Con impazienza abbiamo seguito da allora le fasi di crescita e sviluppo della Comunità europea che, vinte nel ’73 le reticenze dei più ricchi paesi del Nord (Gran Bretagna e Danimarca), poteva, con la caduta delle ultime dittature, riequilibrarsi anche al Sud (in Grecia nell’81 e nei paesi iberici nell’86). L’Austria, la Svezia e la Finlandia arriveranno solo nel ’95. Per lunghi anni abbiamo condiviso le grandi attese e le forti delusioni con quanti avrebbero voluto affrettare i tempi di una unità non più solo economica, ma anche politica dei paesi della Comunità europea. I suoi cittadini eleggevano infatti i propri rappresentanti al parlamento di Strasburgo, ma, ahimè, senza poteri decisionali. Piacesse o meno, questo insieme di stati che poteva vantare ormai diversi primati economici era però pur sempre un’Europa atlantica: una Europa dimezzata. Finché quella barriera all’Est, dietro cui una metà del continente aveva vissuto e sofferto un quarantennale inverno di oppressione ideologica e materiale, non si sgretolò quasi inaspettatamente alla fine degli anni Ottanta. In verità, quei paesi che il Trattato di Yalta aveva consegnato dopo la guerra all’Unione Sovietica non avevano cessato mai di reclamare il proprio diritto all’autodeterminazione, a costo di pagarne un altissimo prezzo di sangue: basti ricordare la rivolta ungherese del ’56 e la Primavera di Praga nel ’68. Ma il cosiddetto mondo libero sembrava impotente davanti alla minaccia reale di un terzo conflitto mondiale che un’alterazione degli equilibri raggiunti fra Est e Ovest avrebbe potuto innescare. Sarà l’elezione di un papa polacco ad affrettare inaspettatamente un mutamento nel corso della storia. Non abbiate paura aveva gridato Karol Wojtyla, ricordando agli europei tutti che il loro continente si estendeva dall’Atlantico agli Urali; che, insieme con Benedetto, anche Cirillo e Metodio, gli apostoli degli slavi, si dovevano considerare patroni d’Europa. A molti di noi, comodamente seduti nel nostro confortevole benessere, poteva sembrare quello del papa un dotto esercizio di filologia storica. All’Est suonava invece come un invito a rialzare la testa. Mi sono chiesto – dirà Lech Walesa – come mai, ogni volta che organizzavo uno sciopero nei cantieri navali, mi trovavo attorno non più di dieci persone e poi, d’improvviso, nel 1980 furono 10 milioni. Io facevo sempre gli stessi discorsi, ma la gente aveva ascoltato quel grido di Giovanni Paolo II. Questo papa, Solidarnosc, ma anche Gorbaciov, Reagan e Kohl stavano aprendo all’Europa col nuovo corso storico le frontiere dell’Est. L’Europa a due polmoni non era più un sogno e i popoli che avevano riacquistato la propria dignità di paesi liberi e democratici chiedevano a buon diritto di fare parte di quella comunità dei paesi europei di cui condividevano la cultura e la fede. I dieci nuovi paesi entrati nell’Unione europea il 1° maggio godono ancora di un reddito pro capite più modesto di quello medio-europeo, ma in questi ultimi anni ci hanno fatto assistere ad un secondo miracolo, avendo realizzato, nel nuovo clima di libertà conquistato, il maggiore incremento percentuale nel reddito del continente e, con le nuove opportunità che la condizione di stati membri verrà gradualmente offrendo loro, svilupperanno certamente al meglio le loro potenzialità. A ciascuno di questi paesi abbiamo voluto dare voce anche sulle nostre pagine, pubblicando una serie di articoli, ancora in via di completamento, scritti dalle varie edizioni nazionali di Città nuova, in cui esprimono speranze e perplessità che giustamente nutrono in questo delicato passaggio che li porta ad abdicare ad una parte della loro autonomia, appena riconquistata, per condividerla con altri. Oggi il nucleo principale di questi paesi, dal Baltico all’Adriatico (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria e Slovenia), rappresenta la frontiera orientale dell’Unione, ma domani, se veramente si compirà il disegno non più assurdo di un’Europa che ritrovi i propri confini culturali e spirituali, torneranno a rappresentare quella Mitteleuropa che orgogliosamente furono. Altri paesi, quelli balcanici, sono in lista di attesa; e altri ancora, più a Est, hanno pure essi una storia e una vocazione europea. L’Unione ha infatti in sé una tensione all’apertura verso l’esterno che dovrà necessariamente rispettare i ritmi imposti da quelle compatibilità di ordine politico ed economico che la premuniscono da un rigetto fisiologico verso intrusioni improprie, ma che è al tempo stesso garanzia di vitalità. E qui si innestano a buon diritto anche le considerazioni sulla dimensione spirituale che innerva e rende vitale la cultura europea, troppo grande per essere disattesa. Una dimensione cui abbiamo dedicato un intero fascicolo allegato a questo numero della rivista nella circostanza del grande convegno svoltosi proprio in questi giorni a Stoccarda, in Germania, dal titolo Insieme per l’Europa, al quale abbiamo partecipato.

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