10 anni di prove di pace

Biban, sulle alture di Sarajevo. Da quassù si gode una vista impareggiabile sulla città. Arrivo che il tramonto non si è ancora esaurito, e parto ormai a notte fonda. La città così s’illumina poco alla volta, insegna dopo insegna, lampadina dopo lampadina, come un presepe, o come una costellazione. Da qui, come fossi dinanzi ad un modellino da strateghi, amici di Sarajevo mi spiegano le varie fasi dell’assedio, preparazione, direttrici e manovre difensive. Si intuisce l’inferno vissuto dai suoi abitanti per quattro anni interminabili. La discesa da Biban pare una immersione nella luce. Ma la luce di Sarajevo è accompagnata da ombre che incutono ancora paura. Lo sforzo concretizzatosi nell’accordo di Dayton – arbitro un allora radioso Bill Clinton – ha ritenuto risolvere il problema bosniaco usando la soluzione salomonica per eccellenza, cioè uno stato composto da due entità distinte: una in mano all’etnia serba, l’altra soprattutto ai musulmani, più che ai cattolici croati. Un risultato almeno Dayton l’ha ottenuto: è stata posta fine alle violenze. Ma l’accordo non sembra avere futuro, non solo perché gli esclusi di fatto non ci stanno e perché la burocrazia sembra elefantiaca, ma soprattutto perché la separazione va contro la storia d’un paese che da sempre ha fatto convivere al suo interno, pur con aspre difficoltà, diverse etnie e religioni. Il maggior problema della capitale bosniaca sta forse nel non avere più gli occhi del mondo puntati su di sé. All’epoca dell’assedio, dal 1992 al 1995, assistemmo in diretta all’agonia di Sarajevo, e le sue case sbranate dai mortai o sezionate dalle raffiche di mitra erano entrate nel nostro immaginario collettivo. L’hotel Holiday Inn, orrido cubo di chiara architettura da socialismo (ir)reale, occupato dai giornalisti presenti a Sarajevo, era diventato l’icona dell’assedio ingiusto, con la sua sommità bruciata da un incendio. Ora l’hotel è stato ristrutturato, ma all’esterno l’architetto ha voluto riprodurre le tracce di fumo dell’edificio a colpi di formica e di pennello! Quasi a sperare che i riflettori continuassero a rimanere, almeno un po’, puntati su Sarajevo. Non è stato così. Le guerre si dimenticano in fretta (da lontano). Ma la città continua a vivere come se le telecamere ci fossero ancora. I carpentieri e i muratori non sono riusciti a celare alla vista dei visitatori i punti di impatto dei milioni di proiettili sparati dentro e fuori la città, e gli artigiani che una volta incidevano bricchi e piatti, oggi lavorano coi bossoli raccolti dopo la guerra. La gente vaga nella città senza una meta precisa, perché non ha lavoro (55 per cento di disoccupazione) perché la casa è poco accogliente, perché Sarajevo ha sempre vissuto nelle piazze… Sarajevo si mostra ma non è più guardata da nessuno, o quasi. Dopo la libertà, l’uguaglianza La nostalgia della Jugoslavia che fu ritorna. È inevitabile. Le organizzazioni internazionali ci hanno illuso di portarci lavoro – afferma un ingegnere del ministero dei lavori pubblici -, ma in realtà stiamo peggio di prima. Sì, i nostri figli hanno gli stessi cellulari dei loro coetanei europei, ma hanno poco o niente per studiare e per vivere decentemente. Mentre un medico ospedaliero si lamenta degli sconquassi del libero mercato, per cui un medico privato guadagna sei volte quello che riesco a mettere insieme io. E una madre di famiglia: Si convive di nuovo, con qualche vicino in meno. Ma senza serenità. Di questo e di altro parlo con l’arcivescovo di Sarajevo, il card. Vinko Puljic´. Mi accoglie nel palazzo arcivescovile, situato a ridosso del mercato all’aperto sul quale durante l’assedio era caduto un missile provocando la morte di quasi cento persone. Ogni pietra qui parla di morte ed eroismo, quell’eroismo che il cardinale ha manifestato in mille occasioni. Naturalmente si dialoga sulla Chiesa cattolica in Bosnia Erzegovina. Siamo preoccupati – mi dice -, in primo luogo perché tanti nostri fedeli non sono ancora ritornati a casa: prima della guerra eravamo 830 mila cattolici, oggi siamo solo 466 mila in tutta la Bosnia ed Erzegovina. Manca infatti una vera uguaglianza, a livello economico, politico, di diritti e di religione. Dayton ha diviso il paese in due entità, una in mano soprattutto dei musulmani, l’altra dei serbi (la Repubblica Srpska), dove tra l’altro è quasi impossibile ritornare: in quella parte di Bosnia c’erano 220 mila cattolici, ma solo 10 mila di loro sono tornati, in dieci anni. La federazione non ha avuto il coraggio o la possibilità di promulgare leggi veramente egualitarie, e noi cattolici non abbiamo gli stessi diritti dei serbi e dei musulmani, anche nel cercare un lavoro, anche nell’ottenere spazi in tv, anche nell’accesso alla politica. Tutto ciò il cardinale me lo dice serenamente. Tuttavia noi cattolici – riprende – crediamo di avere una missione speciale, quella di essere un ponte tra oriente e occidente, nel ricordare che bisogna vivere insieme. Come agire? Con una strategia a diversi livelli. Abbiamo innanzitutto cercato di costruire delle scuole apertea tutti. In secondo luogo, ho nominato in ogni parrocchia un sacerdote, anche se non aveva più né casa, né luogo di culto e talvolta nemmeno fedeli. Abbiamo anche fondato un settimanale cattolico, Katolic´ki tjednik, perché vogliamo fare della Bosnia ed Erzegovina una sola nazione. Desideriamo anche costruire un seminario. Infine, vogliamo riorganizzare il laicato, che durante il comunismo era vietato e durante la guerra impossibile. Faccio notare al cardinale come Ivo Andric´, massimo scrittore bosniaco, avesse scritto in una sua novella che il bosniaco coltiva l’odio nel suo cuore. Questa di Andric´? – mi risponde il cardinale – è una quasi-verità. Per tanti anni la gente bosniaca ha vissuto sotto la grande mano straniera, che fosse la Turchia, l’Austria, poi i comunisti, e oggi la comunità internazionale, una presenza assai ingombrante. Quest’odio è il sintomo di una reazione all’impossibilità di sentirsi liberi. L’unica libertà che il bosniaco ha sempre avuto è stata quella di brontolare! Tutti coloro che sono arrivati in Bosnia da dominatori ci hanno manipolati, mettendoci gli uni contro gli altri. Anche oggi, i paesi europei vengono con la scusa di aiutare, ma spesso appoggiano qualche gruppo particolare, creando così una reazione esattamente contraria. Avanzo l’ipotesi – puro esercizio accademico – di una Bosnia ed Erzegovina con tre stati, per ottenere l’uguaglianza… No, assolutamente no! – è la reazione del cardinale -. Il grande peccato americano è stato quello di dividere. Sono per una Bosnia ed Erzegovina unita e unica, nell’eguaglianza. L’orrore al bar Il cammino, quasi un pellegrinaggio verso Srebrenica, dura circa tre ore. I miei accompagnatori, cattolici di Sarajevo, paiono turbati, perché da queste parti non c’erano mai venuti prima della guerra, e tanto meno nel dopo-Dayton. Il paesaggio è superbo, i boschi alti e incantevoli, i campi grassi di verde e d’umidità. Ma gran parte di questo affascinante territorio nasconde il pericolo delle mine, per cui Sarajevo pare avere ancora un assedio da combattere. All’arrivo a Srebrenica, a dieci anni di distanza dal massacro perpetrato dai serbi di Mladic ai danni della locale comunità musulmana l’11 luglio 1995, colpiscono le case scarnificate, che espongono lo scheletro di cemento armato a cui sono rimasti attaccati, a volte penzoloni, moncherini di muro. Gli altri mattoni sono stati prelevati, assieme a tutto ciò che eventualmente esisteva, ed ora compongono altri muri, magari quelli della casa del vicino. La valle di Srebrenica è una lunga serie di case costruite con le rimesse degli immigrati, costruite in economia. In esse vivevano – e in parte vivono ancora – famiglie musulmane in prevalenza bosniache e famiglie ortodosse, quasi tutte serbe. E poi qualche nucleo croato e cattolico. Ma il sangue che è colato nel torrente di Srebrenica era quasi esclusivamente sangue misto: la purezza della razza da queste parti non è che illusione. Prima di arrivare all’abitato è stato edificato un cimitero per le vittime del genocidio. Un migliaio, sulle 7 mila accertate. I cadaveri di coloro ai quali non è stato ancora associato un nome sono raccolti nella sconfinata camera frigorifera approntata a Tuzla, dove si cerca di districarsi nella foresta dei dna, sperando di non sbagliarsi.Tra le teorie di tombe tutte uguali, segnate da lapidi di legno verde, una famiglia passa tra le sepolture: Hasan Jukic´, accompagnato da madre, moglie e figlio, qui ha sepolto il padre e due fratelli. Mi racconta della fuga nei boschi nottetempo, quando certi serbi, liberati dal guinzaglio delle Nazioni unite (allora di marca olandese), hanno dato fondo a quanto di più bestiale esiste nell’uomo. Una fuga precipitosa, cercando di salvare la pelle, in particolare quella della moglie incinta. Poi la sopravvivenza nel bosco, tre mesi di selvaggia disperazione, nel corso dei quali nacque Nazer. Una vita nata dalla morte, oggi un simbolo, a dieci anni dall’abominio. Tanto più che la famiglia Jukic´ vuole vivere ancora in un paese in cui cristiani e musulmani, serbi e bosniaci e croati abitano gli uni accanto agli altri, frequentano le stesse scuole, gli stessi negozi, campi, uffici. Discorso analogo nelle parole dell’iman, Alija Jabokovic´, anch’egli figlio di questa terra, anch’egli fuggito nei boschi e scampato alla morte quand’era ancora un adolescente. Alija accoglie i musulmani che stanno tornando poco alla volta nel loro villaggio, erano 18 mila, 8 mila sono stati uccisi, 4 mila sono tornati o rimasti, 6 mila sono ancora in esilio ed esitano a tornare, anche se la presenza internazionale è assai massiccia. Ci sono tutti: Osce, Nato, Unione europea, Care, Caritas…: anche se, secondo l’imam, la loro presenza non è più indispensabile per assicurare una convivenza pacifica, ma solo per fornire quei posti di lavoro che sembrano crudelmente latitare.Al bar ci salutiamo, spesso sediamo allo stesso tavolo, non abbiamo risentimenti particolari, salvo eccezioni, per qualcuno che ha denunciato noi musulmani. Ma sono casi isolati, che spesso se ne sono già andati. E chi ha ucciso non era di queste parti. Alija ha perso padre, madre e fratelli nel massacro di Srebrenica: Non posso dimenticare, non sarà mai possibile. Ma posso vivere, questo sì, cercando di non pensare troppo a quei momenti, e di coltivare nel mio cuore sentimenti di pace. A fatica ricomincia una vita che si vorrebbe normale. Giuseppe Terrasi, italiano, lavora a Srebrenica per una Ong, la Icmo, Centro di ricerca per l’educazione alla pace. La sua analisi è lucida: È il terzo anno che vengono organizzate le Giornate di Srebrenica, un modo per far sentire agli abitanti della cittadina che si può ricominciare. Oggi inauguriamo il nuovo Centro giovanile… Fino all’anno scorso i profughi tornavano sotto scorta per il timore di rappresaglie, mentre oggi arrivano senza troppe preoccupazioni. Ma di notte Srebrenica fa paura. A sera, ripresa dalla tivù di mezzo mondo, l’emittente serba manda in onda un lungo e drammatico filmato che documenta la cattura e l’esecuzione di una dozzina di musulmani di Srebrenica da parte delle famigerate milizie paramilitari serbe, sotto gli occhi di un ufficiale dell’esercito regolare. Insostenibili immagini: perdono è una parola che va riempita di fatti per dimenticarle. Bosniaci e musulmani Il Reis ul-Ulema Mustafa Ceric´ è la massima autorità nel mondo musulmano balcanico. Un uomo dalla grande esperienza politica e dalla notevole lucidità. Non risparmia le frasi ad effetto: La nostra esperienza a Sarajevo è stata per quattro anni quella di un campo di concentramento, come ad Auschwitz, come a Srebrenica. Ma crediamo che, pur ricordando, si debba scegliere il modo migliore per creare le migliori relazioni possibili con l’altro, anche se l’Europa ci ha tradito. Mustafa Ceric´ vuole a tutti i costi esaltare l’Islam bosniaco: I nostri musulmani hanno accresciuto il loro rapporto con Dio e la loro fiducia in lui, perché hanno perso quella negli uomini che li hanno dispersi, uccisi, malmenati, sterminati. E quindi ora ci sono più fedeli musulmani di quanti non ce ne fossero prima. Speriamo che l’Europa ci garantisca cinque valori: vita, religione, libertà, proprietà e dignità. Così potremmo essere sicuri ed essere felici. E precisa: Mi lasci anche dire che l’Europa ha bisogno di una rivoluzione spirituale, nel senso che la cultura europea sembra attualmente esausta. Secondo troppi europei razionalisti, Dio non dovrebbe dirci quello che noi dobbiamo fare, ma noi dovremmo dire a Dio quello che lui dovrebbe fare! Questa è pura arroganza. Ora, spiritualità significa umiltà, pentimento, coscienza del mistero. Si dice che ci sono più musulmani nelle moschee che cristiani nelle chiese, e che bisognerebbe perciò diminuire il numero di coloro che vanno nelle moschee. Penso che al contrario si debba incrementare il numero dei cristiani che frequentano le chiese, senza però lasciare i musulmani nell’impossibilità di frequentare le loro moschee. L’esempio dei musulmani potrebbe aiutare i cristiani nella loro pratica religiosa . Il dialogo tra musulmani e cristiani è possibile ancora?, avevo chiesto al card. Puljic´: Senza considerare il problema etnico, già di per sé gravissimo – mi aveva risposto -, debbo dire che tale dialogo dipende essenzialmente dalla politica. Quando la convivenza civile funziona, il dialogo è possibile. Ma se non c’è uguaglianza, non lo è. Ma non c’è alternativa al dialogo, se vogliamo vivere in pace. E il gran mufti Mustafa Ceric´ non afferma cose diverse quando dice che noi bosniaci non possiamo non convivere, ma nella giustizia. La gente, i galleggianti, l’Europa La gente semplice, la gente della strada, la gente disoccupata vuole convivere. Me ne sono convinto ascoltando le loro lamentele, ma anche in certo modo il loro fatalismo, la storia che risale dalle pieghe della loro anima. Certo, il microcosmo bosniaco è in mano a politici-galleggianti che paiono volere solo il potere per il potere. Mentre le organizzazioni internazionali agiscono in ordine sparso, senza una grande capacità di incidere sul corso reale delle cose, e l’Europa esita a investire le proprie risorse e la propria politica in una regione che fa in certo modo paura. Mi ha detto il card. Puljic´: La Bosnia ed Erzegovina, se vuole creare uno stato stabile, deve aprire la propria legislazione ai princìpi democratici dell’Europa. Ma essa deve prima venire qui da noi, e poi noi entreremo a farne parte! Prima dobbiamo creare i diritti civili e personali, poi potremo entrare in Europa, la nostra grande famiglia. Una sfida.

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