Per chi suona la campana?

Sulla vicenda di Pomigliano abbiamo raggiunto don Giuseppe Gambardella, sacerdote napoletano, in prima linea nella difesa dei lavoratori e delle famiglie
campane

La vicenda dello stabilimento Gianbattista Vico di Pomigliano segna profondamente il volto della città e la vicenda personale di tante famiglie che si rivolgono alla parrocchia per chiedere soldi per pagare le bollette ormai scadute ma anche i viveri di prima necessità.

 

Don Giuseppe Gambardella, parroco da oltre 17 anni della chiesa di S.Felice in Pincis, a Pomigliano, non si limita tuttavia a svolgere una funzione prevedibile di aiuto «per chi è rimasto indietro». Quando si è trattato di chiamare a raccolta la popolazione per scongiurare la chiusura di alcune fabbriche, la campana della Chiesa è diventata il richiamo alla coscienza di ciascuno perché «il problema dell’altro non può suscitare indifferenza e rassegnazione».

 

La Cederna in un servizio per L’Espresso del 1993, sui trenta giorni di occupazione dell’Alenia, lo ha descritto mentre si sdraiava a terra insieme agli operai durante un momento di disobbedienza civile. Così nel 2008 ha sostenuto le ragioni della “tenda della dignità” alzata dagli operai della Fiat Avio esclusi dal lavoro nel passaggio di proprietà avvenuto dagli Agnelli al Fondo Carlyle.

 

Da anni sostiene l’attività di una associazione antiracket che ultimamente ha trovato sede in uno degli immobili sequestrate alla malavita ed è stata inaugurata alla presenza dal sottosegretario Alfredo Mantovano il 14 giugno. È perciò una tra le persone più accreditate per offrire uno sguardo reale sulla vita di quel territorio dove si sta giocando il destino non solo di una fabbrica.

 

Parliamo del senso della famiglia nel momento della crisi.

«La famiglia finora è stato l’unico baluardo contro la solitudine che spalanca le porte all’usura e alla camorra. Ma il senso di precarietà alimenta la condizione di una paura latente, quella del rimanere disoccupati ed essere esclusi».

 

Ovviamente questo vale per i lavoratori Fiat, ma molto di più per le aziende dell’indotto…

«È proprio così. L’indotto che in momenti felici offriva lavoro a migliaia di persone ora è finito. Quasi tutti i capannoni sono chiusi. È una disperazione che pochi riescono a cogliere. Vedo persone anche di valore, professionalmente preparate che, arrivate a 50 anni, si trovano fuori dalla produzione e non trovano più lavoro».

 

La società si sente coinvolta dalla vicenda?

«Purtroppo devo dire che si nota l’allentamento del patto operai-collettività. La lunga attesa di una soluzione logora il senso della solidarietà. Vedo nei lavoratori come se avessero perduto l’unità che era la caratteristica molto forte a Pomigliano. Adesso è come se ognuno decidesse da solo, indipendentemente dagli altri. Vuole risolvere il problema perché le esigenze materiali sono cresciute (il mutuo, i figli a scuola…). Si diventa pronti a tutto purché qualcosa si risolva. Avverto la decadenza del senso di fraternità e del legame tra i lavoratori».

 

E questo proprio nel momento in cui occorre definire i termini dell’accordo con l’azienda…..  

«La Fiat mi sembra stia giocando su questo: se non accetti il piano A ti presento quello B… Si troveranno aggiustamenti ma il clima generale è quello di resa».

 

Circola anche un immagine dei lavoratori di Pomigliano da rieducare e incapaci di tenere il confronto con gli altri stabilimenti della Fiat.

«Si tratta di tesi strumentali che non corrispondono alla realtà. Non mi pare che ci sia alcuno da rieducare. Sono persone coscienziose con senso di responsabilità e professionalmente valide. Il confronto con i lavoratori polacchi va fatto sul posto tenendo conto di tante condizioni e non alimentando conflitti. Mi rendo conto che si vuole accentuare la spaccatura che purtroppo esiste nel mondo del lavoro».

 

La chiesa locale non sembra indifferente…

«Abbiamo preso posizione nobili e di forte spessore intellettuale, ma manca come un corpo capace di sostenere con forza quanto si afferma. Il lavoro che si svolge nella comunità parrocchiale, dove vivono tante famiglie coinvolte dalla questione, genera un senso di appartenenza e di consapevolezza ma si è in pochi e senza momenti aggregativi continuativi. È come “uno che chiama nel deserto”.

«Ultimamente si è trattato di sostenere la condizione dei lavoratori con i contratti a termine, i primi a cadere per la loro precarietà contrattuale, ma la reazione alla richiesta di partecipazione e sostegno è stata molto blanda. Nel ‘93 suonavo le campane e accorreva tutta la città come espressione di una grande senso di solidarietà che non vedo più. È una nuova fase della storia. Ognuno vive nella sua casa in attesa che qualcosa succeda.

«In altri tempi le dichiarazioni di Marchionne sarebbero state irricevibili. C’è molta stanchezza e disillusione e il bisogno di rimettere al centro un discorso credibile sul lavoro e sulla centralità della persona. Ne vediamo la necessità da anni nel consiglio pastorale dove si trovano ragazzi che pure lavorano nel sindacato».

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