Vogliono morire una volta sola

Mi ha molto colpito l’appello lanciato da oltre trecento ergastolani al presidente Napolitano: Signor presidente della Repubblica, siamo stanchi di morire un pochino tutti i giorni. Abbiamo deciso di morire una volta sola, le chiediamo che la nostra pena dell’ergastolo sia tramutata in pena di morte .Una tale richiesta non può, e non deve, lasciarci indifferenti. Una prima domanda che pone è la seguente: perché esiste l’ergastolo, e non una pena severa ma che ad un certo punto termina (es. trent’anni)? La ragione dell’ergastolo nelle moderne democrazie non è la vendetta, né semplicemente un risarcimento per il danno gravissimo procurato ad altri. La ragione più forte, quella condivisa dalla maggioranza della popolazione, è impedire a chi ha commesso gravi delitti di tornare a delinquere minacciando così la vita di altri innocenti. Ma torniamo a quella lettera: All’ergastolano rimane solo la vita. Ma la vita senza futuro è meno di niente. È dunque la mancanza di speranza, di sogni e di prospettive che fa desiderare loro di morire subito: posso convertirmi, cambiare, pentirmi, chiedere perdono alle vittime, ma nessun gesto può cambiare quel per sempre, carcere a vita. A questo punto nasce una seconda domanda: ma è giusto, almeno dalla prospettiva cristiana, che ad una persona, per quanto grave sia la sua colpa, non si dia la speranza di scontare la pena e un giorno, magari molto lontano, poter uscire dal carcere? È giusto non dare una possibilità di futuro ad un essere umano perché esiste il rischio che forse, un domani, possa commettere un nuovo reato grave? Personalmente sono convinto che non sia giusto: non può la legittima paura per un incerto possibile futuro reato tramutarsi nella certezza di una vita senza speranza. Una comunità, però, ha il dovere di ridurre al minimo i rischi dei suoi cittadini, soprattutto se il rischio è mortale. Siamo di fronte ad un dilemma, che però non è insolubile, se smettiamo di pensare che il carcere sia qualcosa che non ci riguarda, sia un non-luogo, che non sia parte della città. Qualunque soluzione a questo dilemma deve partire dal considerare il carcerato, l’ergastolano, come un membro della comunità, magari malato, ma sempre membro. Una tale soluzione, però, non potrà venire solo dallo Stato e dalle istituzioni perché sono un peso e un rischio troppo grandi. Il peso va condiviso con tutta la società civile. C’è bisogno della creatività della società civile, dei suoi carismi: sarà da qui che nascerà qualcosa di nuovo, perché a nessuna vita sia negato un futuro, sia cancellata la speranza.

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