Vladimir Jurowski

Vent’anni fa, un Vladimir venticinquenne, altissimo, chioma corvina, venne a Roma all’Accademia Santa Cecilia, la prima volta.

Vent’anni fa, un Vladimir venticinquenne, altissimo, chioma corvina, venne a Roma all’Accademia Santa Cecilia, la prima volta. Elegante, diritto, passo svelto, bacchetta focosa. Da allora è un ospite abituale. Ad aprile, eccolo impegnato con la Sinfonietta di Alexander Zemlinsky e la Prima Sinfonia “Titano” di Mahler. È rimasto uguale. Lo sguardo penetrante, il gesto e il corpo flessi a suscitare suoni o a calmarli. Per uno che nasce a Mosca e vive a Berlino – sposato, due figli – ha un padre e un fratello direttore, la musica è tutto, non ha confini. Anche quella contemporanea, visto che questa estate tornerà al festival di Glyndebourne (che ha diretto fino al 2013) per la prima mondiale dell’opera Hamlet di Breett Dean. Mahler è nelle sue corde. Dirige la prima (1889) inserendovi il secondo tempo – Blumine, Allegretto – che il musicista aveva tolto: un movimento di tesa spiritualità. Del resto, la sinfonia è un poema monumentale, un viaggio tra un romantico passato e un futuro in attesa, tra la festa della natura (primo tempo) e i presagi di un conflitto (ultimo tempo). Gli artisti spesso pre-vedono cosa ci sarà nell’aria. Vladimir guida l’orchestra, l’affatica, la solleva, la placa e lo spirito mahleriano seduce e confonde, sino all’applauso liberatorio. Mario Veneziani

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