Un popolo dimenticato

Tra i saharawi, schiacciati nel deserto del Maghreb. La testimonianza di un agricoltore francese.
Il popolo saharawi

Nel momento in cui i popoli arabi sono in subbuglio, ce n’è uno praticamente dimenticato e senza terra. Un popolo che non è sulle prime pagine dei media occidentali. Si tratta dei saharawi, confinati da qualche parte tra Mauritania, Marocco e Algeria. Tuttavia, una breve incursione sulle prime pagine c’è stata lo scorso novembre, quando si è parlato dei presidi improvvisati nei pressi della città‑campo rifugiati di El-Aïoun, che l’esercito marocchino avrebbe dato alle fiamme.

 

Questo territorio, classificato “non indipendente” dall’Onu sin dagli anni Sessanta, a cui la stessa Onu aveva promesso un “referendum di autodeterminazione”, era stato abbandonato precipitosamente dalla Spagna e immediatamente invaso al Nord dal Marocco e al Sud dalla Mauritania. Da quel momento il popolo del Sahara è diviso in due: una parte vive nel Sud del Marocco e l’altra nel Sud-Ovest dell’Algeria. Tra i due, il Marocco ha costruito un muro di 2600 chilometri di lunghezza, un record. Altro triste primato, la zona è il più vasto campo di mine nel mondo, in particolare anti-uomo.

 

Da 33 anni, circa duecentomila mila persone vivono, dunque, in pieno deserto; è l’esilio più lungo dei tempi moderni. Vivere in un capo saharawi è difficilmente immaginabile: anche i nomadi li evitano perché eccessivamente caldi e poco ospitali.

Qui ha scelto di vivere, da cinque anni, Jean-François Debargue, un ex pastore venuto dalla Normandia, che ha lasciato la sua fattoria ai figli per aiutare i saharawi. Delle circostanze provvidenziali l’avevano fatto arrivare nel deserto, e da quel momento coordina un progetto di valorizzazione dei terreni agricoli, sviluppando dei giardini familiari che sono adesso in numero di 200 su una superficie che varia dai 3 ai 30 metri quadrati, senza contare tutte le inimmaginabili astuzie per trovare l’acqua. Un progetto finanziato da istituzioni quali la Caritas italiana.

 

«Come molti – mi dice –, io non conoscevo niente dei problemi del Sahara occidentale prima di arrivare nel campo dei rifugiati di El-Aïoun, uno dei quattro campi situati vicino a Tindouf, in pieno deserto algerino, vicino alle frontiere mauritane e marocchine». Un popolo, il cui presidente è stato eletto democraticamente, fatto raro nella regione, che abita in mezzo al suo popolo coi ministri; un popolo musulmano per il quale la tolleranza e la libertà non sono vane parole, anche per le donne.

 

«Posso testimoniare le loro attenzioni senza pari – aggiunge –: sono stato malato e mi hanno curato, o meglio, sommerso dalle loro cure. Ho avuto sete e mi è stata offerta la sola acqua fresca. Mi hanno invitato a condividere la loro razione alimentare, offrendomi i migliori bocconi. Mi sono a volte sentito solo, lontano dai miei, e mi hanno subito capito e circondato di affetto famigliare. Posso testimoniare la loro saggezza, la loro cultura e la loro capacità di organizzare la propria sopravvivenza, in mancanza di una vita normale. Quale altro popolo sarebbe stato capace di trasformare una tale difficoltà in esempio? Perché al di là della loro lotta per poter finalmente disporre della propria terra, hanno saputo realizzare una democrazia diretta e rispettata, delle priorità per preparare l’avvenire (insegnamento, cultura…), una solidarietà che manca sempre di più alla nostra società».

 

Nel suo ultimo messaggio, Debargue si domanda cosa succederà se non si farà ancora nulla: «Cosa abbiamo noi di meno delle specie animali o vegetali che voi proteggete? Che ne sarà di questo popolo fiero e dignitoso che ritiene che l’aiuto umanitario non sia solo aiuto materiale, ma al tempo stesso la concretizzazione di una soluzione politica, attraverso la realizzazione del referendum previsto da 18 anni? Che ne sarà di queste nuove generazioni nate nei campi, assistite completamente da 34 anni e che, comunque, studiano, partecipano alla organizzazione dei campi e credono ancora che tutti questi sforzi consentiti potranno un giorno servire allo sviluppo del proprio Paese?». E conclude così: «Alla domanda: “Cosa sei diventato?”, io risponderei senza dubbio: “Un rifugiato”. In questo popolo che è fuggito dalla guerra, dall’ingiustizia e dalla morte, io ho trovato pace, giustizia e vita. Ho trovato rifugio tra i rifugiati. Sarebbe ancora possibile da noi?».

 

BOX

A quando il referendum?

 

Il Sahara occidentale è stato riconosciuto come territorio «non indipendente» in attesa di un referendum di autodeterminazione richiesto dalle stesse Nazioni Unite dal 1960 con una quindicina di risoluzioni, al quale possono partecipare solo gli abitanti del Sahara.

 

Nel 1973 avviene la fondazione del Fronte Polisario, e nel 1974, sotto la pressione della prima intifada del Sahara, la Spagna accetta un referendum di autodeterminazione sotto il controllo delle Nazioni Unite e censisce 74 mila persone. Hassan II, re del Marocco, si rivolge alla Corte internazionale di giustizia contro il referendum, ma il 16 ottobre 1975 la sua richiesta viene respinta.

 

Il 29 aprile 1991 il Consiglio di sicurezza decide di creare la Missione Onu per il referendum (Minurso), ma in 20 anni non è stato ottenuto alcun risultato.

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