Un po’ di rispetto

Ha l’aspetto dimesso e molto accessibile Ludmila Alekseeva, quando mi riceve nella sede del Gruppo di Helsinki di Mosca, a poche centinaia di metri dalla Lubianka. Eppure questa donna, mite all’apparenza, ormai sopra la settantina, è una fiera lottatrice, protagonista del dissenso, cioè di quella resistenza solo apparentemente passiva, ma fervida di iniziative che, lottando per i diritti umani e pagando di persona, aprì una vistosa crepa nel monolite sovietico. Dopo tante battaglie è ancora sulla breccia. Parliamo di ieri e di oggi. Come reagirono le autorità sovietiche alla comparsa del Ghm? “Juri Orlov aveva messo insieme varie persone che già si occupavano del movimento per i diritti umani, includendo anche due suoi colleghi fisici che conosceva da molto tempo. Le persecuzioni sono incominciate subito, e dopo 9 mesi sono incominciati gli arresti. Per fortuna io non sono stata arrestata, ma è stato un caso raro, perché quasi tutti i membri del Ghm sono finiti in prigione. Nel febbraio del 1977 io sono emigrata e diventata rappresentante del Ghm all’estero. Da fuori continuavo a diffondere i nostri documenti, a difendere quelli che venivano arrestati. Certo che la partenza è stata forzata, perché io partecipavo al movimento per la difesa dei diritti umani quasi dall’inizio, cioè dalla metà degli anni Sessanta, e sono stata soggetta a perquisizioni e a interrogatori senza fine…”. Una partenza forzata. Perché? “Nel 1974, mi hanno chiamata al Kgb, e mi hanno letto una relazione su un processo aperto contro di me secondo l’articolo 70, che riguardava “l’agitazione anti-sovietica”, e che poteva condurre a 7 anni di prigione più 5 di esilio. Mio marito ha molto insistito perché partissi, ma per tre anni ho resistito. In seguito i membri del gruppo sono riusciti a convincermi a partire. Oltre al Ghm c’erano gruppi analoghi in Ucraina, Lituania, Georgia e Armenia, ed in tutti ci sono stati arresti. Più di 50 persone sono state messe in prigione”. Lei ha perso il lavoro quando ha incominciato il Ghm? “Io stessa ho lasciato il lavoro. Ero redattrice nell’Istituto di Informazione della Accademia delle Scienze, gli uffici erano molto piccoli ed io in genere prendevo il lavoro da fare e lo facevo a casa. Ma, ad un certo punto, al Kgb non andava che io potessi disporre del mio tempo; hanno chiamato il mio capo e gli hanno detto che dovevo rimanere tutto il giorno in ufficio. Mi pagavano poco, la mia famiglia viveva dello stipendio di mio marito, ed ho deciso di lasciare il lavoro. “Prima, nel 1968, mio marito ed io siamo stati licenziati dopo aver firmato una lettera in difesa dei prigionieri politici. Allora ero rimasta due anni senza lavoro, perché ero sulla “lista nera””. Alcuni dicono che negli ultimi tempi la situazione diritti umani in Russia è peggiorata… “È vero, in certi casi le cose si sono complicate e, anche se può sembrare paradossale, precisamente dopo l’11 settembre. Noi appoggiamo l’integrazione della Russia nell’alleanza anti-terroristica, perché il terrorismo è un male mondiale e la partecipazione della Russia è importante, ma questo ha portato ad un indebolimento o addirittura ad una scomparsa della pressione dell’occidente sulle autorità russe per ciò che riguarda il rispetto dei diritti umani e la Cecenia”. Quando è iniziato nell’Urss il fermento sulla tutela dei diritti umani? “Il movimento per la difesa dei diritti umani nel nostro paese è incominciato a metà degli anni Sessanta, e noi abbiamo fatto appello all’occidente. Siamo stati accusati di mancanza di patriottismo – ancora oggi ci accusano di ciò – ma allora non avevamo un’altra scelta. I nostri governanti non ci ascoltavano, ma ascoltavano l’occidente, e l’occidente è stato un intermediario tra noi e le autorità del nostro paese. Allora è iniziata una pressione molto forte sull’Urss nel campo dei diritti umani. Liberazione dei prigionieri politici, permesso di lasciare il paese per quelli che lo volevano, libertà religiosa, libertà dei mezzi di comunicazione sociale. Sono state poste condizioni molto esigenti che hanno portato il nostro governo a cedere in par- te. È stato l’inizio del crollo del regime autoritario”. Attualmente, l’occidente ha preso la posizione contraria? “Il nostro governo di oggi, in confronto col governo sovietico, si presenta molto più aperto. Noi non abbiamo più prigionieri politici… anche se è chiaro che non siamo ancora uno stato di diritto e si verifica una enorme quantità di violazioni dei diritti umani. Queste cose sono difficili da correggere. “Ma adesso che siamo diventati amici dell’occidente, i dirigenti dei paesi occidentali hanno deciso che non si deve dispiacere al presidente Putin, intromettendosi nelle questioni interne. Così hanno deciso di riconoscere che in Cecenia si sta lottando contro il terrorismo. È una posizione molto miope, e noi riteniamo che le nostre idee oggi non vengano più sostenute dall’occidente”. Paradossalmente, allora, trovate adesso meno ascolto in occidente? “In questi 10 o 12 anni, dopo il crollo dell’Urss, il movimento per i diritti umani si è ricostituito e organizzato e noi abbiamo la possibilità di rivolgerci direttamente ai nostri governanti. “Nel novembre dello scorso anno si è tenuto a Mosca un “foro civile”, per iniziativa delle autorità. Io ho aperto i lavori del foro ed ho dato la parola a Putin. Il potere si è accorto di noi, quali difensori non solo dei diritti umani, ma anche dell’esistenza della società civile. Comunque, continua qualche volta ad ingannarci, altre volte a cercare di convincerci, prova a manipolare alcune persone, a fare pressione su altre…”. Dopo il foro è incominciato qualcosa di nuovo? “Ci sono stati alcuni sviluppi positivi. A marzo è iniziato il dialogo tra i difensori dei diritti umani e i militari che dirigono le operazioni in Ce- cenia. Purtroppo, recentemente siamo stati costretti a fare una conferenza stampa per dire che sospendiamo le trattative perché non ci sono risultati. “Il potere non è una cosa uniforme. Nei circoli del presidente c’è chi lo vorrebbe in una posizione più vicina alla società civile, e c’è chi pensa che noi dovremmo essere completamente sottomessi al potere. E lì, quando predomina una parte, i rapporti migliorano, quando è l’altra a prevalere, peggiorano”. Sarebbe ancora prezioso un apporto dell’occidente? “Quando l’occidente smette di fare pressione sui diritti umani collabora con le forze che si oppongono alla democratizzazione. Può darsi che anche nei governi occidentali ci siano delle forze contrarie che vogliono continuare a vedere la Russia come una “forza del male”, il che non è più così. Siamo un paese di cultura cristiana, di cultura occidentale, e abbiamo avuto un passato molto difficile. “Per noi è una grande perdita il fatto che l’occidente abbia smesso di sostenerci, ma indipendentemente da ciò i difensori russi dei diritti umani continueranno a battersi per la fine della guerra in Cecenia, per la fine delle violenze sulla popolazione civile, e per la fine delle violazioni dei diritti umani in tutto il paese”. Oltre alla Cecenia, ci sono altre aree dove vengono violati i diritti umani? “Il paese è enorme e quasi dappertutto ci sono violazioni dei diritti. Non si può dire che esista un diritto che non sia stato violato. Se ci sono dei cambiamenti sono piuttosto in senso peggiorativo. Le due ultime settimane di lavoro della Duma di stato, prima delle ferie estive, hanno visto una vera raffica di leggi antidemocratiche: la legge sul servizio militare alternativo, la legge sulla cittadinanza, la legge sull’estremismo. Lasciano un enorme potere ai funzionari statali, e loro lo useranno”. Il “gruppo di Helsiniki di Mosca” Era il 1° agosto del 1975 quando a Helsinki, si concluse la “riunione per la sicurezza e la cooperazione in Europa” con la partecipazione di 35 paesi, compresi l’Urss. Tra gli accordi raggiunti nell’atto finale, c’era l’obbligo di rispettare i diritti umani dei cittadini, come un elemento indispensabile per la stabilità del vecchio continente. Questo risultato non sfuggì a chi da anni si batteva per il rispetto dei diritti nell’Unione Sovietica, e nell’anno seguente, Juri Orlov, fisico e difensore dei diritti umani, decise di creare un gruppo per denunciare a tutti i firmatari dell’accordo di Helsinki, compreso il Cremlino, le violazioni commesse dalle autorità sovietiche. Orlov mise insieme alcuni dei nomi già noti per le loro prese di posizione. Il 12 maggio del 1976, nell’appartamento di Andrej Sakharov, si tenne una conferenza stampa dove venne annunciata la creazione del “Gruppo per la collaborazione alla realizzazione dell’accordo di Helsinki in Urss”, chiamato in seguito il “Gruppo di Helsinki di Mosca” (Ghm).Tra quelli che aderirono subito all’idea di Orlov c’erano Ludmila Alekseeva, il giornalista Alexandr Ginzburg e Elena Bonner, moglie di Andrey Sakharov. Sakharov preferì non diventare membro del gruppo perché “aveva fatto un’esperienza negativa con le organizzazioni”. Dalla creazione del gruppo fino a quando la repressione bloccò il suo lavoro, il Ghm investigò e denunciò varie situazioni di violazione dei diritti dei cittadini. Una quindicina di documenti fu resa pubblica in conferenze stampa tenute in genere negli appartamenti dei membri del gruppo, alle quali parte- cipavano alcuni corrispondenti stranieri.Alcuni membri del Ghm fecero viaggi per raccogliere direttamente informazione su abusi da parte dalle autorità. Ludmila Alekseeva andò in Lituania per investigare sul caso di un gruppo di studenti esclusi dalla scuola, dopo che erano stati convocati dal Kgb con l’accusa di ascoltare la radio Vaticana e frequentare Viktoras Piatkus, un attivista cattolico che aveva fatto 14 anni di lager. Nella seconda metà di dicembre del ’76, per i membri del Ghm divenne evidente l’aumento della pressione da parte del Kgb. Interrogatori, perquisizioni, false accuse fecero temere che il potere sovietico non fosse più disposto a tollerare le attività del Ghm. Juri Orlov fu costretto a nascondersi nei dintorni di Mosca, ma l’8 febbraio, venuto a sapere che Alexandr Ginzburg era stato arrestato, decise di ritornare nella capitale. Non potendo andare a casa sua, che sapeva sotto stretta vigilanza del Kgb, si diresse all’appartamento di Ludmila Alekseeva. Comunicando solo attraverso appunti scritti, per non fare sentire la sua voce, convocò i dirigenti del Ghm ed una conferenza stampa. Pochi minuti dopo che Orlov aveva parlato al gruppo radunato, il telefono nell’appartamento smise di funzionare, e apparvero sulla strada alcune macchine. Per Orlov non c’era più via d’uscita. Il mattino dopo gli agenti del Kgb entrarono nell’appartamento e lo arrestarono. Il Ghm continuò a lavorare com’era possibile fino al 1982, quando i pochi membri rimasti in libertà dovettero dichiarare sospese le loro attività. Juri Orlov venne messo in libertà ed espulso dall’Urss nell’ottobre del 1986, alla vigilia dell’incontro di Mikhail Gorbaciov con Ronald Reagan. Nell’estate del 1989, in piena “perestroika”, il Ghm venne “rifondato” e, fino ad oggi, continua a lavorare per la realizzazione del paragrafo 10 dell’accordo di Helsinki.

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