Tutto Boetti e il suo contrario

Più di cento lavori realizzati tra il 1962 e il 1994 si snodano nelle sale della galleria. Gli arazzi ormai familiari, per anni visti in vendita su Telemarket, si ripropongono all’esame di chi li ha etichettati come una azzeccata commerciale: l’opera completa dell’artista porta a rileggerli e a modificarne il significato. Le stanze sfavillano di colore per quei mosaici fatti di filo, eppure è risaputo che all’artista spetta l’idea, il progetto, mentre la manifattura degli arazzi è affidata alle tessitrici afghane alle quali è data la licenza di scegliere i colori. A suo tempo qualcuno gridò allo scandalo: il piacere estetico di quel mosaico multicolore non era merito dell’artista! La mostra celebra proprio questo ed altri simili gap di Boetti: un apripista nei confronti delle nuove generazioni di artisti che oggi si trovano a ripercorrere le sue orme in merito a tematiche come l’autografia dell’opera, la distinzione tra il pezzo unico e il multiplo d’arte, il rifiuto di uno stile fisso, la contaminazione culturale. Aspetti dell’arte che Boetti non ha mai cristallizzato in serie elaborazioni di parole, ma che ha costruito e argomentato in modo leggero e ironico con il proprio fare artistico. Così è per le parole, le frasi e gli slogan che dobbiamo decifrare sui suoi arazzi: ordine e disordine, tra il cielo e la terra, sragionare in lungo e in largo, non parto non resto, talvolta sole talvolta luna. Lettere e parole messe in fila (o in riga) che allo stesso tempo non dicono niente e dicono tutto. Si mostrano nel loro non senso, nella gratuità dei bei colori e della scrupolosa manifattura, e contemporaneamente dicono una vita e un universo fatti di princìpi opposti che per Boetti si danno sempre insieme. È la bocca stessa dell’artista a dirci, per una volta, che ogni cosa contiene il suo contrario e che conviene cercare sempre un termine nel suo opposto: l’ordine nel disordine, il buono nel cattivo, il bianco nel nero, la luce nell’ombra e viceversa. L’idea che ogni cosa abbia un’altra faccia, un doppio, si ritrova anche in un originale autoritratto dove, grazie a un fotomontaggio, vediamo Boetti passeggiare in corso Peschiera a Torino mano nella mano con la sua copia, un altro sé. Forse è la stessa idea che lo porta a sdoppiare la propria firma in Alighiero e Boetti, come si trattasse di due persone distinte e unite allo stesso tempo; o che lo porta a scrivere contemporanea- mente con la destra e con la sinistra, o che ancora gli fa costruire uno strumento impossibile: un mandolino con due manici; gli accordi di una mano interferiranno con quelli dell’altra, e poi chi darà la pennata alle corde? Le immagini e le suggestioni fornite da Boetti sono degli enunciati ludici che non valgono se astratti dalla loro componente ironica. Il gioco si ripresenta nei lavori eseguiti a biro; parole cifrate da leggere collegando le virgole alle lettere corrispondenti; anche qui il messaggio non vale separatamente dall’ordito di segni di biro che, similmente alla tessitura degli arazzi, viene affidata a terzi. Le virgole bianche sullo sfondo del blu della biro si trasformano presto in aerei di diverso tipo che infittiscono il cielo e che, similmente alle parole al vento proposte dall’artista, puntano in tutte le direzioni possibili e impossibili offrendosi a una prospettiva sempre nuova e diversa. Figure, lettere, pensieri e persone sono sottoposti allo stesso gioco di sospensione tra identità e alterità, individualità e collettività. Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 presenta la sagoma dell’artista formata da tante palle di cemento su cui è stata impressa l’impronta della sua mano. L’autenticità della mano dell’artista si impone questa volta con forza, a scapito della delega manuale che ricorre spesso in altri lavori, ma anche qui l’identità è rappresentata per mezzo della molteplicità, l’artista per la moltiplicazione di un suo gesto; sul cemento sbozzato poggia una farfalla gialla, e ritorna la leggerezza, quel sentimento distaccato e volatile che ricorre in tutta l’opera di Boetti. Non si tratta di anarchia, ma di totale libertà di stile, gioco di parole e di pensieri. La sregolatezza diventa regola, scherzare con il mondo diventa il modo di vederlo e di viverlo. ,

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