I tormenti di un monaco
Dovrebbe essere contento, frate Martin, nel suo convento a Wittenberg, la cittadina di duemilacinquecento abitanti costruita su una bianca collina di sabbia, vicino all’Elba, ricca d’acqua e di boschi. […] Ospita una ventina di frati ed è stato fondato nel 1502 da Staupitz, un uomo di fede serena. Lutero si adatta facilmente nell’ambiente povero, senza lussi. Ora insegna Sacra Scrittura, al posto di Staupitz, nella giovane università che il principe Federico ha voluto creare qualche anno prima in concorrenza con quella di Lipsia, e tra i professori ha arruolato Martin. […]
Ora è perciò occupatissimo.
Ne sta parlando da ore con il suo priore Johann, un po’ camminando per il chiostro, un po’ sedendosi al fresco nel piccolo cortile interno sotto il grande albero di pere del convento.
[…]
Lutero non è felice. «Volete confessarmi, padre?», chiede con voce stanca. «Ma l’abbiamo fatto solo qualche giorno fa!», si stupisce frate Johann. «Però ne ho ancora bisogno», chiede Lutero. La confessione è lunga, puntigliosa nei dettagli: bisogna ricordare tutto per avere la certezza del perdono divino. Staupitz sa come fare con i monaci troppo scrupolosi: ascolta con calma l’ennesima accusa delle colpe.
Alla fine Johann, serio, gli dice: «Martin, non serve che ti confessi ogni giorno. Accadrà che ci sarà qualcuno che alla fine non vorrà più ascoltare l’elenco del colpe che gli hai già confessato altre volte. Non esasperare le cose: ogni minima trasgressione rischia di portarti alla disperazione. Ascoltami – gli dice con dolcezza –, è una cosa buona il tuo amore appassionato per Dio, ma non essere stupido: Lui non è irritato con te. Sei tu che sei in collera con Lui! Non perdere la speranza, guarda a Cristo crocifisso per te!».
Martin tace. Allora il mite Johann: «Ascolta – gli fa, alzando la voce –, a meno che tu non abbia commesso adulterio o ucciso qualcuno, non voglio più stare a confessarti!».
Martin ci pensa. Legge i mistici tedeschi che lo portano a considerare la propria nullità di fronte a Dio e ad abbandonarsi completamente a Lui, approfondisce Agostino e i suoi studi sul peccato originale, commenta agli studenti le lettere di san Paolo. È spesso angosciato, più che dal lavoro, da un’inquietudine interiore che lo assale soprattutto di notte. Solo, dentro la cella nuda, si dibatte, si prostra a terra per pregare, gli pare di star combattendo contro il demonio. Staupitz ascolta, si preoccupa, e tace. Martin non rischierà di sprofondare nella depressione, nella sua eccessiva ricerca di Dio?
Un giorno, Lutero è immerso nella lettura della Lettera ai Romani di san Paolo: […]
Lo sguardo a un certo punto si ferma su un passaggio: «Il giusto vivrà per la sua fede». Sono parole lette altre volte, ma ora diventano un’illuminazione fulminea per frate Martin, che si ferma e sussulta dicendo a voce alta: «Ma allora per salvarsi basta abbandonarsi in Dio che non è solo un giudice tremendo ma misericordioso, un perdonatore, e nella sua parola! È la fede in lui soltanto che ci salva!». L’illuminazione improvvisa lo scuote: di colpo vede la possibilità di un incontro chiaro e certo con Dio, senza più paure e angosce. […]
Il priore, che lo conosce, ascolta. […]
«Certo, ci vuole la fede, ma, ricordati, anche le nostre buone azioni servono per dimostrarla ed essere graditi a Dio. Ora, andiamo in coro a pregare con gli altri – sussurra –, è l’ora del vespro».
Da LUTERO, L’uomo della rivoluzione di Mario Dal Bello (Città Nuova, 2017)