Sudamerica: in crisi il sogno di integrazione

Sei dei dodici Paesi che fanno parte dell’Unione delle nazioni sudamericane hanno sospeso la loro partecipazione a Unasur. Dall’eccesso di ideologia, alla mancanza di idee

Uno degli effetti del cambiamento politico dei governi di gran parte del Sudamerica è quello di contribuire alla crisi del processo di integrazione regionale, trasformandolo da disegno di sviluppo del subcontinente a una sequenza di iniziative frammentarie, frutto di interessi e visioni parziali. L’ultima vittima di questo cambiamento di rotta è l’Unione delle nazioni sudamericane (Unasur, in spagnolo), sorta nel 2008 dal sogno accarezzato dal presidente brasiliano Inácio Lula da Silva e accompagnato specialmente dallo scomparso presidente del Venezuela, Hugo Chávez.

Erano tempi in cui era evidente, da un lato, la coincidenza ideologica di vari governi dei 12 paesi dell’America del Sud, affini alle idee di sinistra. In modo particolare, il Brasile, l’Uruguay, l’Ecuador, la Bolivia, il Venezuela e l’Argentina dei Kirchner condividevano l’idea di mettere le basi di un blocco regionale che potesse sottrarsi politicamente all’egemonia degli Stati Uniti.

Tre anni prima, in uno storico summit delle Americhe, svoltosi in Argentina, l’opposizione di questi Paesi fece fallire definitivamente la proposta statunitense dell’Alca, un’area di libero commercio continentale, dalla quale pochi, oltre a Washington, avrebbero tratto benefici. Il contrasto non era solo commerciale: già in seno all’Organizzazione degli stati americani (Osa) il citato gruppo di Paesi faceva fatica a sopportare l’egemonia statunitense che, di fatto, condizionava la politica del sistema americano (che prevede organismi come la Corte interamericana dei diritti umani).

Interessi e sensibilità divergevano grandemente e chi voleva beneficiare della benevolenza della Casa Bianca doveva in pratica sottostare ai suoi dettami. L’episodio del siluramento (in pigiama!) del legittimo presidente dell’Honduras nel 2009 (l’ambasciatrice statunitense a Tegucigalpa si vanterà in seguito di aver messo ordine nel Paese) non fece altro che confermare uno stile che i Paesi sudamericani non erano più disposti ad accettare.

Il blocco si costituì, ma con più sogni che realizzazioni concrete. Al di là del coordinamento delle politiche estere, della creazione di una presidenza pro tempore per un anno e di una segreteria generale con sede a Quito, in realtà non si concretizzò un gran che. La Banca del Sud, un organismo che avrebbe dovuto assumere localmente le funzioni della Banca Mondiale (anche questa controllata dalla politica Usa), non ha mai raccolto i fondi necessari al suo funzionamento.

Il problema dell’Unasur è ideologico. Al di là di una coincidenza generale in materia di giustizia sociale, non si è riusciti a trasformare il progetto in un processo capace di andare avanti senza l’intervento dei capi di stato e di governo. È il tradizionale problema dei rapporti commerciali della regione, dove ogni questione doganale deve essere risolta dai massimi vertici.

Il giro politico avvenuto in Brasile, Argentina, Chile, Colombia, Perú e Paraguay non ha fatto altro che affossare il progetto. Le divergenze sorte tra questi e la Bolivia, in modo speciale col Venezuela ormai ridotto a regime autoritario senza iniziativa, non hanno permesso di raggiungere il consenso necessario a nominare il segretario generale. Con l’inizio della presidenza pro tempore della Bolivia, i sei Paesi indicati hanno sospeso la loro partecipazione al blocco.

Se fin qui il problema dell’Unasur è stato quello di troppa ideologia e pochi fatti concreti, il rischio è quello che ora avvenga il contrario: poche idee, considerazioni di carattere esclusivamente commerciale, nessuna visione di sviluppo condiviso. Se per i governi precedenti l’economia era un mezzo per raggiungere obiettivi ideologici, per quelli attuali è un fine di per sé: ci si allea per obiettivi solo commerciali.

Nel frattempo, molte cose sono cambiate. Oltre al cambiamento politico locale, l’America Latina e il Sudamerica non rientrano tra le priorità dell’agenda della Casa Bianca. Ma nemmeno si sono leader con la capacità di superare individualismi e di guardare al di là delle questioni domestiche: in Brasile Michel Temer deve stare attento a conservare i voti necessari a non essere messo sotto processo, in Argentina Maurizio Macri è alle prese con un’economia che i suoi tecnocrati hanno potuto ordinare ma non controllare e con una situazione sociale esplosiva, superiore alla capacità di gestione. Ecuador, Colombia e Perú sono alle prese con dibattiti interni. Uruguay e Bolivia non hanno la necessaria forza politica o la chiarezza di idee per far ripartire il processo d’integrazione. Ne fa le spese una visione d’insieme che si allontana, pur se quanto mai necessaria. Ancora una volta ci si dedica alle urgenze, tralasciando l’essenziale. Eppure l’economia globalizzata avrebbe dovuto insegnare che da soli non si va molto lontano.

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