Storie di chi ricomincia

A un mese dall’inizio del sisma nelle province di Modena e Ferrara si rafforza l’impegno sui vari fronti dell’emergenza.
Una fisioterapista con una piccola paziente

Voglia di normalità. È uno dei sentimenti più ricorrenti fra i terremotati dell’Emilia che da oltre un mese continuano a subire le scosse di un terremoto che sembra non voler finire. In questo primo periodo lo sforzo principale è stato senz’altro quello di prendere le misure della tragedia animati da quella che qui è diventata subito una parola d’ordine: ripartire! E lo si cerca di fare sui vari fronti aperti dall’emergenza. Le aziende, prima di tutto, come sostengono non solo gli imprenditori, ma la maggior parte degli emiliani.
 
Giovanni Arletti di Carpi è il proprietario della Chimar spa, un gruppo di imprese – con sedi oltre che nel modenese anche a Vicenza, Trento, Torino, Milano – che opera nel settore degli imballaggi e della logistica. È anche vicepresidente della Confindustria di Modena. Dopo la scossa del 29 maggio uno dei suoi capannoni, quello di Cavezzo, è venuto giù e dunque anch’egli vive in prima persona la condizione di chi deve adoperarsi per ripartire. Sperimentando la solidarietà anche coi “concorrenti”.
«Dopo il primo sisma – ci racconta – ho telefonato ad un nostro concorrente di un paese vicino che sapevo aveva avuto dei danni all’impresa e gli ho offerto il nostro aiuto per la produzione in modo che potesse rispettare le scadenze… Naturalmente ha gradito. Quando col secondo sisma è crollato anche il nostro capannone di Cavezzo, ho ricevuto a mia volta centinaia di telefonate che dimostravano una solidarietà straordinaria, tanta disponibilità ad aiutarci, anche da parte di concorrenti e non solo dall’Italia. Molto probabilmente in questi anni anche con loro abbiamo mantenuto un rapporto corretto altrimenti approfitterebbero del momento per conquistare quote di mercato: una solidarietà del genere è frutto di una stima reciproca, non si improvvisa».
Ciò nonostante ripartire è veramente complesso per la situazione in sé ed anche perché i provvedimenti adottati hanno suscitato tanti punti di domanda: «La situazione per le imprese è pesantissima e il decreto emesso dal governo ha fissato delle regole rigidissime per mettere i capannoni in sicurezza – considerato che l’Emilia fino al 2005 non era stata dichiarata zona sismica e dunque le costruzioni non erano tenute a rispettare norme antisismiche –. Purtroppo se tu chiudi un mese, i clienti che hanno bisogno dei tuoi prodotti vanno da altri. Nella nostra provincia c’è solo un’impresa che può chiudere e ripartire quando vuole, la Ferrari, perché è l’unica a produrre queste macchine e se uno le vuole aspetta; le altre se perdono i rapporti con la rete commerciale non li recuperano facilmente. Anche imprese che non hanno subito danni, poi, non possono ripartire se non vengono messe a norma, ma noi chiediamo che chi è in questa condizione possa riaprire e nel frattempo adeguarsi».
Di fronte alla desolazione del suo paese, Carpi, che ospita tendopoli in ogni angolo verde disponibile, l’imprenditore confida: «In un momento in cui crolla quello per cui hai lavorato tutta una vita, qualche domanda bisogna farsela. Non sarà un granché, ma mi sembra positivo il fatto che nascano forme di solidarietà straordinaria, che stiamo riscoprendo dei valori che pensavamo di avere perso».
 
Mentre scriviamo, i giornali riportano la notizia dell’ennesima vittima del sisma. Una donna incinta di pochi mesi, che si era sentita male dopo la scossa del 29 maggio, aveva perso il bambino ed era entrata in coma. Da quel momento non si è più ripresa. Proprio alle donne in gravidanza è rivolto il lavoro promosso da Gino Soldera, trevigiano, presidente dell’Associazione nazionale psicologia e pedagogia prenatale. Ci racconta del suo impegno a Finale Emilia dove si reca per offrire consulenza per donne incinte, magari in coppia col marito, in collaborazione col Centro aiuto alla vita e il consultorio familiare locale.
«La maggior parte delle donne presenti agli incontri svolti finora è di origine straniera – ci spiega –, perché quelle italiane sono per lo più andate via seguendo l’indicazione di allontanarsi dalla zona dello stress. Contattiamo soprattutto quelle ai primi mesi di gravidanza per evitare parti prematuri, e perché il primo periodo è quello dove lo stress ha un’incidenza più profonda non solo di tipo funzionale, ma anche strutturale sul bambino stesso. Puntiamo su tre tecniche: la psicosomatica del respiro, cioè tecniche del respiro per sbloccare le tensioni, per dare calma e autocontrollo; l’educazione prenatale, con momenti formativi per la madre e per la coppia; per quelle che sono più vicine al parto, infine, insegniamo il “parto-nascita-accoglienza”, una metodologia che affronta l’esperienza in termini familiari, in cui viene riconosciuto un ruolo importante sia al padre che al nascituro, attore dell’esperienza della vita».
È un lavoro che si fa soprattutto per gruppi, anche perché non c’è un ambulatorio per ricevere le persone una alla volta, ma essendo un problema di natura sociale, si cerca di fare rete fra quelli che vivono questo tipo di esperienza, senza escludere il livello individuale.
I rischi maggiori in questa fase? «Per la mamma – spiega Soldera – sono ansia e depressione, oltre al pensiero ricorrente dell’episodio traumatico. Il trauma, nella misura in cui non viene affrontato, agisce come tensione di fondo, come blocco, toglie capacità di concentrazione, calma, disponibilità, capacità di adattamento. Le ripercussioni nel bambino possono durare tutta la vita perché si è visto che in questa fase si forma l’epigenoma, cioè una struttura data dall’interazione dei geni e degli stimoli che vengono dall’ambiente esterno». Ed è quindi urgente agire.
 
Altre categorie a rischio, bambini e ragazzi. Elisabetta Masini, da 30 anni fisioterapista presso il Servizio di Neuropsichiatria infantile situato presso l'ospedale Borselli di Bondeno, reso inagibile dalle scosse, dal 20 maggio “porta” la sua palestra in giro per il paese. Così ci racconta il suo terremoto: «Dopo la scossa del 20 maggio, nonostante la paura per quanto successo, avrei voluto sapere come stavano i miei piccoli pazienti, ma le comunicazioni inizialmente erano impossibili. La piccola N. mi ha accolto tra i pomodori in una serra casalinga, dove i genitori hanno sistemato i materassi per dormire. Sono felici perché possono stare insieme! Vorrei portarli nel campo della Protezione civile, ma mi rendo conto che per la loro cultura straniera e le difficoltà della piccola è meglio non prendere decisioni affrettate e assicuro loro il mio aiuto concreto.
Ricevo un dolcissimo messaggio dalla mamma di una mia ex paziente. Ha perso il marito nel crollo del capannone di Sant’Agostino, mi chiede un aiuto per la figlia che non riesce a sfogarsi. Si ricorda del bel rapporto che era nato tra di noi. La chiamo subito e troviamo insieme la soluzione! Mi ritrovo anche con un elmetto in testa insieme alla mia responsabile, scortata dagli operatori della Protezione civile per trasportare le cartelle cliniche nel servizio di Cento dove ci siamo trasferiti. Pensando ai miei bambini, ho chiesto timidamente di potere prendere anche qualche gioco e i poster colorati; i volontari hanno accolto e capito subito l'importanza di questi segni che fanno ''casa'' e hanno acconsentito. Nei momenti difficili, come quello che stiamo vivendo, i rapporti sono i mattoni che resistono alle scosse più terribili e ci fanno andare avanti insieme».

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