Sos empatia

Fuga dalla conversazione, difficoltà di capirsi e di star bene con se stessi. I guai, alcuni, della vita digitale

Prima scena: un gruppo di ragazzi a tavola chiacchierano e ridono. Sembra che vada tutto bene, ma osservando con attenzione si nota che la conversazione è frammentata, superficiale, continuamente interrotta da occhiate al bip del cellulare. Ognuno dei ragazzi è presente… ma anche lontano. L’attenzione per quello che l’altro dice è breve, con poco impegno emotivo. La ragione è semplice: «Se sappiamo di poter essere interrotti in qualsiasi momento dal cellulare, tendiamo a mantenere la conversazione su argomenti banali o su tematiche che non suscitano polemiche. Le conversazioni con i telefonini sullo sfondo bloccano ogni legame empatico» (Sherry Turkle, La conversazione necessaria, Einaudi).

Seconda scena: ufficio di una grande azienda. L’amministratore delegato riunisce i dirigenti e li incoraggia ad incontrarsi e parlarsi di persona, non solo via mail. Spiega che, a volte, per risolvere problemi di rapporti può essere utile chiedersi scusa guardandosi in faccia.

Ma che sta succedendo nella società di oggi, piena di potenti strumenti di comunicazione? Gli esperti cominciano a rendersi conto, con preoccupazione, che quando parliamo con qualcuno tramite strumenti digitali (cellulare, mail, social) è come se ci mantenessimo a distanza di sicurezza, senza coinvolgere fino in fondo il nostro intimo. È come se recitassimo, controllando come ci presentiamo, cosa diciamo, le emozioni che mostriamo.

La conversazione faccia a faccia, invece, è viva, ricca, caotica, esigente, imprevedibile, piena di segnali non verbali fortemente emotivi: il viso, gli occhi, la voce, il linguaggio del corpo. Nella conversazione diretta non puoi controllare del tutto ciò che dirai. Il risultato è che, se il digitale prende troppo spazio, la vita si impoverisce, non riusciamo più a capire gli altri, si equivocano le intenzioni e il significato dei messaggi, ci si allontana dall’intimità. E, cosa strana, non riusciamo più a concentrarci e a stare bene da soli con noi stessi. I ragazzi crescono pensando che sia normale che qualsiasi conversazione o attività (il pranzo in famiglia, lo studio, il gioco, il lavoro, una passeggiata) sia continuamente interrotta dal trillo del cellulare. Ma questo porta a un deterioramento della vita sociale: diventa difficile stabilire un contatto di sguardi, capire veramente gli altri, andare in profondità. Siamo frammentati, superficiali e ansiosi senza il continuo stimolo online. Troppo tempo sui social modifica l’immagine che ognuno ha di sé e può portare a depressione, perché tutti gli altri sembrano più felici di me. Ma Facebook non rappresenta in toto il mondo reale, è solo un teatrino dove vendiamo la nostra immagine migliore.

 

Vuoto di empatia

Possiamo rassegnarci a questo? No. L’empatia (cioè la capacità di intuire le intenzioni dell’altro) è una delle caratteristiche che ci qualificano come esseri umani. Non possiamo perderla. Le nonne una volta usavano spesso la frase: «Guardami quando mi parli!». Il “vuoto di empatia”, se inizia da piccoli, può permanere tutta la vita.

Per fortuna sembra che la nostra capacità di recupero sia notevole: basta qualche giorno di conversazione senza cellulare e tecnologia di mezzo, perché la nostra capacità empatica migliori.

Perfino la regolarità dei pasti in famiglia (senza cellulari sul tavolo) sembra offrire protezione dalla delinquenza minorile e dalla tossicodipendenza, oltre a favorire migliori successi in ambito scolastico.

Forse perché il dialogo faccia a faccia con altre persone ci aiuta a costruire “narrazioni”: abbiamo infatti bisogno di ascoltare (e proporre) storie di vita reali, soprattutto per dare un senso agli avvenimenti e alla nostra vita.

I social media e la tecnologia inibiscono, in parte, tutto questo, in quanto limitano il contatto umano. Soprattutto riducono la capacità di elaborare le emozioni negative, col risultato che si finisce per «apparire insensibili e indifferenti». L’accoppiata velocità e superficialità, infatti, ci rende meno capaci di compatire il dolore e ammirare le virtù, processi neurali “lenti” e coscienti.

Dunque bando al digitale? Assolutamente no. Ne abbiamo bisogno come non mai. Ma con buon senso, limitando il tempo che gli dedichiamo. Quindi bilanciare reale e virtuale, sport e cellulare, chitarra e social, amici reali (pochi) e contatti digitali (molti), impegno sociale ed evasione virtuale, attenzione all’altro accanto a me e tempo speso sui profili di Facebook o Instagram, conversazioni guardandosi negli occhi e scambi frenetici su WhatsApp, silenzio osservando le stelle e ansia da bip. La sfida è aperta.

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