Si può misurare l’integrazione?

Immigrati
Un caso da studiare, non unico ma raro, molto raro, quello di Novellara, cittadina in provincia di Reggio Emilia che su 13.441 abitanti conta 1.776 stranieri, in maggioranza di religione sikh. Uno su sette, cioè, appartiene ad una delle 65 nazionalità presenti sul territorio del comune emiliano. Una moderna Babele? Macché, un esempio di convivenza pacifica, dove numerosi sono gli abitanti con doppia cittadinanza e i pochi irregolari sono ben conosciuti persino dal sindaco il quale, però, sa che lavorano e, prima o poi, si metteranno a posto.

 

A Cantù, invece, un caso diverso, per il momento unico in Italia. Nasce, infatti, il centralino anticlandestini: un ufficio e un numero verde a disposizione dei cittadini per denunciare, anche in forma anonima, chi non è in regola. È il provvedimento varato qualche settimana fa dal sindaco leghista del centro in provincia di Como. Un tentativo di partecipazione secondo alcuni, caccia allo straniero secondo altri che pure non negano la necessità di una regolarizzazione diffusa. E mentre non si fermano le tragedie del Canale di Sicilia, tomba questa sì anonima di un numero sempre crescente di disperati in fuga dalla miseria se non addirittura dalla morte, la presenza degli immigrati pone sempre nuove domande ai Paesi di approdo. È la perenne sfida dell’integrazione che interpella vecchi e nuovi luoghi di emigrazione tra assimilazionismo e multiculturalismo, tra percorsi consolidati e nuove dinamiche che anche nella nostra Europa hanno cambiato il modo stesso di intendere il termine immigrato. Da qualche parte infatti si chiama così chiunque arrivi da un’altra nazione; in altri luoghi con questa parola si indica chi proviene da un Paese non comunitario; o, ancora, quelli che, sebbene nati e cresciuti in quel determinato posto, hanno i genitori originari altrove. Concetti che cambiano nel corso del tempo e dello spazio e che, a seconda del diverso modo in cui vengono percepiti, determinano anche una modalità diversa di integrazione.

 

Ad oggi non si può dire che esista un Paese dove questo processo funzioni meglio che da altre parti. Dappertutto ci sono delle potenzialità e ovunque delle criticità. Ma quello che è certo è il tentativo di mettere in rete le diverse esperienze, con il loro carico positivo e negativo. È questo, ad esempio, il motivo per cui è stato messo in atto un progetto di ricerca europeo, il Migrants’ integration territorial index, (Miti) che ha prodotto i primi, seppur faticosi, risultati, con un’analisi comparata delle politiche di integrazione in cinque diversi Paesi del nostro continente: Italia, Francia, Regno Unito e Portogallo. Iniziato nel 2006 e durato un anno e mezzo, il progetto che ha visto l’Italia capofila attraverso il Cnel (Centro nazionale economia e lavoro) con il supporto del Centro studi e ricerche Idos (che cura da anni il Dossier statistico immigrazione Caritas /Migrantes), ha realizzato un’analisi di tipo territoriale con particolare riferimento alle regioni e alle maggiori aree metropolitane. Un tentativo di fornire alla politica i dati necessari per misurare un fenomeno in espansione, senza la presunzione che le statistiche esauriscano la comprensione del fenomeno stesso, ma con la coscienza che non si può prescindere comunque dalla lettura della realtà.

La ricerca, inoltre, ha elaborato una sua definizione operativa di integrazione intesa come la condizione (e il processo) grazie al quale una persona può giungere a considerarsi componente attivo e a pieno titolo della società in cui vive dove dovrebbe poter partecipare, se vuole, a un più ampio contesto sociale e culturale che non escluda a priori i suoi valori e i suoi comportamenti. Diritti sociali, civili e politici, adeguate risorse materiali (dall’alloggio all’istruzione, dall’occupazione all’assistenza sanitaria), rete sociale e senso di appartenenza sarebbero gli elementi di tale processo. Vediamo, dunque, come va in Italia. Nel 2007 è stata superata la soglia dei 4 milioni di immigrati regolari con più di 3 milioni di residenti. Per numero di presenze è da anni che la Lombardia e il Lazio sono ai vertici, con quasi un quarto e un sesto del totale, mentre Milano e Roma sono capitali consolidate dell’immigrazione nel nostro Paese. Troviamo poi attestate al 10 per cento il Veneto e l’Emilia Romagna, ma tutte le regioni sono interessate dal fenomeno migratorio e la ripartizione territoriale è più equilibrata rispetto ad altri Paesi della Comunità europea. Ad esempio, in Francia il 40 per cento degli immigrati vive nell’area parigina, dove un residente su otto è cittadino straniero; nel Regno unito oltre un terzo della popolazione straniera risiede nell’area metropolitana di Londra; in Spagna quasi la metà degli immigrati abita a Madrid e nella Catalogna.

 

In quanto all’indice di integrazione, ricavato da dati riguardanti le condizioni abitative, l’indicatore sanitario, la dispersione scolastica, la stabilità sociale, l’occupazione, il reddito medio, prendendo come riferimento la situazione degli italiani a livello nazionale, le regioni che garantiscono un trattamento migliore agli immigrati sono il Friuli Venezia Giulia, il Trentino Alto Adige ed il Piemonte. Se però analizziamo la situazione degli italiani nella stessa regione, ci troviamo di fronte ad una sorpresa: nelle regioni strutturalmente più deboli quello che viene offerto agli immigrati è molto di più rispetto alle loro possibilità; viceversa, il molto che offrono le regioni più attrezzate è poco rispetto a quanto potrebbero dare. In questa classifica troviamo ai primi sette posti regioni che vanno dall’Abruzzo in giù, ma anche il Trentino e l’Umbria; al penultimo posto, invece, la Lombardia e all’ultimo la Valle d’Aosta. Distribuzione inversamente proporzionale.

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