Senza uguaglianza non esiste crescita

Perché è necessario riscrivere le regole dell’economia nella globalizzazione del disincanto. Gli esiti del capitalismo inteso come religione  
EPA/JUSTIN LANE

Oggi il capitalismo ama presentarsi come civiltà laica e post-ideologica. Eppure, afferma Luigino Bruni, ha radici religiose. «Il capitalismo è una religione […]. In futuro ne avremo una visione più chiara», scriveva nel 1922 il filosofo Walter Benjamin.  Oggi il capitalismo della finanza e dei consumi “24ore7giorni” sta rivelando la sua natura “religiosa” o meglio idolatrica, con i suoi “templi” e i suoi riti. Esso è però intrinsecamente legato al disincanto del mondo ed alla secolarizzazione.

Se la realtà è disincantata, tutto si può ridurre a merce. Allora nulla è sacro, tutto può essere comprato e venduto, secondo John Milbank, teologo anglicano. Da questo nuovo paganesimo nasce un’accelerata fusione di poteri di mercato con quelli politici, di proprietari con governanti, tanto da costituire una oligarchia internazionale ricchissima e assai lontana dalla gente. La disuguaglianza che ne deriva nei Paesi occidentali in particolare, non è mai stata così alta se non forse alla vigilia della prima guerra mondiale.

Povertà, disuguaglianza e crisi del 2008 ci fanno interrogare sulla fine dell’ordine neoliberista come nuova “fede” nell’equilibrio generale del sistema economico con i suoi “sgocciolamenti” di benessere sui meno abbienti. La trasformazione radicale della società e degli individui, in atto dagli anni Settanta, deve fare i conti con l’esaurirsi del paradigma finanziario-consumerista. La situazione è piena di rischi in Europa. Non c’è molto in comune tra ciò che vivono, sentono, pensano molti cittadini e ciò che percepiscono e capiscono i governanti, isolati nel loro mondo di élite lontana dal popolo, che ha tradito persone deluse, impoverite e arrabbiate.

Dove nasce il populismo

Come ridare legittimità alle oligarchie politiche, comprese quelle dell’opzione socialdemocratica? Rabbia, risentimento vanno ampliandosi con la voglia di “far saltare il tavolo”. Da qui il successo elettorale di partiti e movimenti populisti e xenofobi, con “soluzioni” facili gridate con slogan alla pancia della gente. Come restituire capacità di azione collettiva autonoma alla società, con nuove forme di vita, nuove pratiche collettive, compartecipazione dei cittadini alle questioni pubbliche, dal basso, in una democrazia partecipativa e deliberativa? Come rilegare insieme economia, società e buona politica e uscire dalla crisi pensando il futuro e cambiando paradigma?

Il futuro è sempre possibile, ma per conquistarlo dobbiamo cambiare le regole. Il neoliberismo era il modello al quale avevamo affidato le nostre speranze di sviluppo economico e benessere. Oggi quel modello è in agonia, perché incapace di rispondere alle esigenze di un mercato globale sempre più sregolato e selvaggio. In questo quadro si inserisce la degenerazione della politica sempre più populista e nazionalista. Importante allora è prendere la direzione giusta e tesa al bene: rinunciare alla cieca economia del consumo per giungere ad un modello di sviluppo sostenibile e integrale nel XXI secolo. Afferma Mauro Magatti in “Cambio di paradigma, Milano 2017: «Solo la combinazione tra sostenibilità e logica contributiva può permettere di ricostruire su basi nuove il rapporto tra economia e società che il neoliberismo ha col tempo mandato in frantumi. E così rispondere alla domanda sulla natura della prossima crescita economica, nel quadro di una nuova stagione della democrazia». Esaurito lo scambio finanziario-consumerista (1979-2008), è ora di implementare lo scambio sostenibile-contributivo.

Si tratta di una nuova visione politico-economica. I consumi saranno garantiti dalla partecipazione diffusa alla produzione di valore condiviso, in un quadro di economia del valore contestuale. Qualità, integrazione sociale e sistemica, contribuzione e valorizzazione delle capacità personali sono gli elementi caratterizzanti. Istruzione, ricerca e sviluppo delle infrastrutture fisiche, digitali e amministrative sono alla base di contesti ad alta integrazione con una politica nuova, leggera ed autorevole, capace di tratteggiare il futuro spodestando la finanza.

Riscrivere le regole dell’economia

Per sconfiggere la disuguaglianza e tornare a crescere, afferma Joseph Stiglitz, occorre riscrivere le regole dell’economia, in modo che funzionino meglio non solo per i più ricchi, ma per tutti. Perseguire l’eguaglianza non significa sacrificare la crescita economica. Al contrario: senza maggiore uguaglianza non c’è crescita sostenibile. Una prosperità condivisa sarà possibile non solo redistribuendo il reddito con imposte e trasferimenti, ma attraverso maggiori salari e accresciuta influenza politica della maggioranza dei cittadini.

È davanti a noi un ampio ventaglio di riforme: fisco, Stato sociale, istruzione, lotta ai monopoli, diritto sindacale, incentivi al lavoro femminile, infrastrutture, sistema penale. Combattere la disuguaglianza alla fonte è possibile. È l’unica strada verso una economia più solida e dinamica. La disuguaglianza dipende da potenti forze globali ma è in primo luogo una scelta deliberata, frutto delle sconsiderate politiche neoliberiste affermatesi fin dagli anni Settanta. È stato ucciso il “sogno americano” delle opportunità per tutti.

Oggi gli Usa rappresentano un Paese oligarchico dalla scarsissima mobilità sociale. Sanità, istruzione, casa sono inaccessibili per molti. Il 20% dei bambini vive in povertà, mentre l’1% più abbiente si è rafforzato con la crisi. Occorre riscrivere le regole, tenere a freno i ricchi, promuovere la crescita della classe media negli Usa ed in tutto l’Occidente. L’Europa in particolare è chiamata ad un ruolo centrale in questa riscrittura delle regole. Dovrà rifondare democraticamente le sue istituzioni rilanciando il suo modello sociale e di integrazione politica verso gli Stati Uniti d’Europa. Ciò sarà possibile soltanto con una vera lotta alla disuguaglianza su scala globale, per condurre ad uno sviluppo equo nella sicurezza dei cittadini, bersagliati dai fabbricanti di paura e rancore, in questo cambio d’epoca. Il nodo è anche culturale.

Serve un’educazione diffusa alla mondialità, alla non violenza, all’economia disarmata, al bene comune perché, come sottolineato da papa Francesco ai  partecipanti del Simposio Internazionale sul Disarmo del 10 novembre 2017, «occorre rigettare la cultura dello scarto e avere cura delle persone e dei popoli che soffrono le più dolorose disuguaglianze, attraverso un’opera che sappia privilegiare con sapienza i processi solidali rispetto all’egoismo degli interessi contingenti. Si tratta al tempo stesso di integrare la dimensione individuale e quella sociale mediante il dispiegamento del principio di sussidiarietà, favorendo l’apporto di tutti come singoli e come gruppi. Bisogna infine promuovere l’umano nella sua unità inscindibile di anima e corpo, di contemplazione e di azione».

 

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