Sempre meglio che lavorare

Una volta si diceva così del giornalismo. Ma adesso...
Lavoro

«Sono scandalizzato da questi giovani giornalisti. Ne incontro uno per un’intervista, e non sa dirmi altro che “mi dica lei quello che le sembra importante, poi vedo io”». Bel modo per iniziare il lunedì mattina: sentirsi smontare la categoria dal proprio direttore. Come se non fosse già successo quando, quattro anni fa, un personaggio del calibro di Eugenio Scalfari mi aveva messa in guardia: «Lascia perdere, lavoro non se ne trova». Ritornello che mi sono sentita ripetere per due anni, durante la scuola di giornalismo, da pulpiti meno autorevoli ma desolatamente concordi.

 

Per chi abbia aspirazioni da premio Pulitzer, la via crucis inizia subito. O ci si dà al rosario (perpetuo, in tutti sensi) delle collaborazioni saltuarie – ma i grani sono ben di più di quelli della corona standard –, oppure si cerca di essere ammessi in una – costosa, dopo che l’Ordine dei giornalisti ha chiuso la propria – scuola di giornalismo. In cui ci si sentirà ripetere ogni giorno, a titolo di incoraggiamento, di essere condannati alla precarietà eterna, che quello lì fuori è un mondo difficile in cui avremo successo solo riuscendo ad eliminare il collega – si accettano proposte sui metodi. Meglio andare a fare panini al kebabaro all’angolo, mangi pure gratis.

 

Chi riesce a sopravvivere ne esce con il veleno in corpo, oltre che con i nervi a pezzi. La formazione ricevuta, poi, è data da insegnanti che spesso non ci credono: si va dalla par condicio che diventa cerchiobottismo (fai l’intervista a questo, ma poi senti anche quest’altro, che ti dirà il contrario), alle lezioni di copia-incolla dai lanci di agenzia (ma tranquilli, lo fanno anche i grossi quotidiani). Il tanto agognato stage non retribuito non necessariamente aiuta: se non sei stato brutalmente schiavizzato da chi ti ha costretto nella redazione deserta la settimana di ferragosto per garantire l’articolo di apertura (che poi ha firmato qualcun altro, perché tu come stagista non puoi), può esserti comunque capitato di vedere il corrispondente da Washington di quella tal testata che, senza uscire mai dall’ufficio, invia al suo giornale i lanci delle agenzie americane. Non proprio un’esperienza formativa.

 

Quando la scuola finisce, inizia la vita reale. Nella maggior parte dei casi, il giovane giornalista porta avanti un numero imprecisato di collaborazioni. Invariabilmente senza contratto, ma pagate a singolo articolo – cinque euro per le brevi, in media una cinquantina per quelli più lunghi, se non vi va bene rivolgetevi altrove. Pressoché sconosciuti i concetti di malattia, maternità e contributi previdenziali. I più fortunati potrebbero ottenere un co.co.co o co.co.pro per 500 euro al mese. In ogni caso quel tesserino da professionista, ottenuto dopo tanto sudore, soldi e sangue (sempre la regola delle tre S che fanno la prima pagina, anche se in tal caso al posto del sudore c’è il sesso), è del tutto irrilevante: torna buono solo nel caso di assunzione con contratto nazionale, vecchia abitudine ormai caduta in disuso.

 

A scuola, poi, ti avevano insegnato che un giornalista si specializza: economia, sport, enogastronomia (la più gettonata). Ma in redazioni che tagliano i posti, la “tuttologia” è la regola. Così, se ti chiedono di intervistare il neoministro alla tessitura in cachemire del Dondestan, hai circa dieci minuti per trovare il Dondestan sulla cartina geografica, scaricare da Wikipedia la biografia di questo personaggio, imparare l’imparabile sulla tessitura in cachemire, e pensare ad almeno tre domande, meglio se intelligenti. Inevitabile scadere nel “mi dica lei”, mantenersi sui massimi sistemi per non far capire all’interlocutore di non sapere assolutamente nulla dell’argomento, e non rendersi conto se costui ci sta raccontando la storia della Vispa Teresa.

 

Ok, fin qui mi sono sfogata. Ma era per dire che non è solo colpa nostra. Lo è però quando questo abbassamento del livello diventa una forma mentis. Quando il non informarsi a sufficienza si trasforma in prassi. Quando la scarsa conoscenza si traduce in disinteresse, invece che genuina curiosità – che fa pure nascere domande intelligenti. Quando cediamo alla tentazione di pensare alla pagina solo come uno spazio da riempire a qualunque costo. Se tutti i giovani giornalisti, insieme, si rifiuteranno di lavorare a queste condizioni, allora qualcosa cambierà. In fondo, passione e convinzione non ci mancano: altrimenti, come saremmo arrivati fin qui?

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