Sciascia e la fede

Nel 1999, in occasione del decimo anniversario della morte di Sciascia, a proposito della cultura cattolica scrissi quello che Sciascia mi dichiarò fin dal primo dialogo palermitano: Trovo piuttosto vacue – chi non sa quanto in profondità si debba andare alla ricerca della libertà -, le polemiche sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Bisognerebbe insegnarla meglio, questo sì. Ma la religione come materia di studio è una pietra su cui l’intelligenza si affila. Se ne sostanzia la fede per chi ce l’ha o la cerca. O ne vengono fuori i Voltaire, i Diderot. Quando avevo preso l’iniziativa di dialogare con lo scrittore di Racalmuto, non sospettavo che sarei stato uno dei suoi ultimi interlocutori. La morte lo colse il 19 novembre del 1989: da un anno appena avevo conosciuto la sua umanità e la sua rara e profonda cultura. Leggo ogni giorno i Vangeli… per me è come dare ogni giorno la corda all’orologio… mi diceva. Era sempre dell’idea di Pirandello, che prima di dichiararsi cattolici bisognerebbe essere cristiani di Vangelo. Quando presentai, casualmente e provvidenzialmente, il Dio di Sciascia ai teologi italiani riuniti presso Oasi di Troina, citai un brano della sua lettera a me indirizzata nel novembre del 1987 a proposito della sua teologia spinoziana e perciò stesso della sua fede in Dio: Non sono, evidentemente, un cattolico, se non statisticamente nel numero di coloro che sono stati battezzati e non hanno abiurato… Il problema di Dio, mai risolto una volta per tutte, lo risolvo ogni volta con Spinoza (fìn dagli anni della scuola), il problema del convivere umano con Voltaire e Diderot. Il cristianesimo di Sciascia coincideva con quello di De Unamuno: non credeva in Dio, ma viveva come se ci fosse, si comportava come un buon cattolico. La religiosità, per lui, andava vissuta in piedi, decisi, trasparenti e coraggiosi. Quella sua sentimentale e inevitabile vocazione illuminista volterrana era solo una segnaletica di stimolo e di meta per un cristiano controcorrente a tutti i livelli: umani, sociali e religiosi. Bisognava uscire da una passività fatale, che una certa cultura mediterranea ci ha regalato nella nostra Sicilia arabo-spagnola, per andare al passo con i segni dei tempi. Quando si accorse che un male incurabile lo conduceva alla morte, il cavaliere, così lo ricordo alludendo al suo testamento letterario e spirituale Il cavaliere e la morte, non ebbe sussulto né di disperazione né di esecrazione: Non ho paura della morte. No, no. È un fatto naturale, come il nascere. Gli andò incontro in maniera dignitosa, così come, nell’aprile del 1989, era andato a visitare il nuovo arcivescovo di Agrigento, salendo a fatica cento scalini per offrire a mons. Ferraro il calice che sarebbe stato poi usato per la sua messa funebre. La messa fu celebrata a Racalmuto, nel santuario della Vergine che lo scrittore amava e alla cui festa, il 15 agosto, fu sempre presente. A distanza di 20 anni il dialogo continua. La Sicilia non è solo isola, ma anche laboratorio e accoglienza del Mediterraneo, terra di santi e d’ingegni. Pulpito di penne e di profezie che tentano non solo di congiungere gli stretti, ma di disegnare una carta europea, premessa della più promettente globalizzazione planetaria.

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