Marina, donna padre e vergine madre

Una santa veneratissima da uomini e donne in Libano, sua terra d'origine, in Italia (è, ad esempio, compatrona di Venezia e le sue spoglie sono custodite nella chiesa di Santa Maria Formosa) e in altri Paesi, perché concentra in sé sia paternità che maternità. Leggenda e tradizione all’opera.
Santa Maria Formosa, facciata e campanile

Santa Marina del Libano (di Bitinia, secondo una fonte greca del decimo secolo) ha una storia affascinante, da film storico: e infatti ne ha ispirati non pochi. Una storia di santità molto orientale, eppure il suo nome e il suo culto sono vivissimi ancora oggi anche in Occidente, pur essendo probabilmente vissuta intorno al quinto secolo (cf. la fondamentale indagine di Léon Clugnet, del 1905). Ed è anche una santa ecumenica, venerata da ortodossi e cattolici, da siriaci, armeni, copti ed etiopi.

I luoghi in Italia in cui si venera oggi Santa Marina sono addirittura una trentina, tra i quali Venezia, che la considera compatrona della città e dove si trova il suo corpo fin dal 1231 (dal 1810 nella Chiesa di Santa Maria Formosa). È pure venerata a Parigi, Cipro, Istanbul e in Sudamerica, dove sono presenti molti maroniti della diaspora. La sua vicenda ha perfino valicato i confini del cristianesimo: i drusi del Libano hanno dedicato in anni recenti un santuario ad un’antica sufi, Sitt She’waneh (la signora She’waneh), la cui storia ricorda molto da vicino quella di Santa Marina. Le testimonianze scritte più antiche che ci sono pervenute sono costituite da una fonte sinaitica dell’VIII secolo, una latina del IX e una greca del X. Ci sono però moltissime leggende, e questo è un segno della meravigliosa vitalità di un antico racconto che ha continuato ad affascinare milioni di donne e uomini per 15 secoli.

Il Sinassario maronita (una collezione di storie di santi) riporta una versione della leggenda di Santa Marina che risale al XVI secolo, ma la Chiesa maronita è ovviamente molto più antica, avendo le sue radici nella comunità monastica fondata da Mar Maroun, un monaco siriaco vissuto a cavallo fra quarto e quinto secolo nella regione di Antiochia. Le notizie che seguono sono, allora, un sommario della tradizione maronita su Santa Marina.

Marina nacque ad al-Qalamoun (un’antichissima città fenicia situata nel Libano settentrionale, 5 Km a Sud di Tripoli). La madre morì quando lei era molto piccola e la bambina crebbe con un forte legame affettivo verso suo padre, Eugenio, che era un uomo buono e un cristiano devoto. Alcuni anni dopo la morte della moglie, Eugenio decise di ritirarsi in un monastero di Qannoubine, nella Valle Santa (la Qadisha, 40 km a Sud-Est di al-Qalamoun, alle pendici del Monte Libano). Marina insistette per stare con lui, così Eugenio, con la complicità della figlia, le tagliò i capelli, la vestì da maschio e la presentò ai monaci come Marino.

Marino si dedicò con grande impegno a vivere le virtù monastiche, dapprima insieme al padre, ormai divenuto egli stesso monaco, ma continuò convinto su questa strada anche dopo la morte di Eugenio. Un giorno, Marino fu mandato in missione in un villaggio vicino al monastero, e trascorse la notte a casa di un amico dei monaci, che si chiamava Pafnuzio. Negli stessi giorni, la giovane figlia di Pafnuzio rimase incinta dopo una notte trascorsa con un uomo di passaggio. Quando il padre scoprì il fatto, volle sapere chi fosse il responsabile della gravidanza e la figlia, per coprire il vero padre del bambino che aspettava, attribuì la colpa a fra Marino. Pafnuzio, furibondo, corse dal superiore del monastero e gli raccontò il fattaccio. Il superiore fece subito chiamare fra Marino, ma il giovane monaco, di fronte alle accuse, rimase in silenzio. Questo silenzio fu considerato un’ammissione di colpa e Marino fu condannato a lasciare il monastero.

Egli ubbidì, pur rimanendo sempre nei paraggi e vivendo di quanto i monaci gli passavano, latte di capra e qualche avanzo di cucina. Quando nacque il nipote di Pafnuzio, fu il nonno stesso che consegnò il bambino a Marino, che lo tenne con sé e senza lamentarsi lo allevò per quattro anni. Mosso a compassione, pur imponendogli severe condizioni, il superiore riammise Marino nel monastero, e il bambino restò naturalmente con lui. Marino perseverò con grande impegno e devozione nella vita ascetica fino alla morte, avvenuta qualche anno dopo. Grande fu lo stupore dei monaci quando, preparando il corpo per la sepoltura, scoprirono che Marino era una donna. Il superiore e i monaci si inginocchiarono davanti al suo cadavere e chiesero perdono a Dio e all’anima di santa Marina.

 Il racconto della vita e delle virtù di santa Marina (morta all’età di 25 anni, secondo alcune leggende) si diffuse nel Mediterraneo ad opera dei monaci basiliani, che arrivarono anche in Italia, soprattutto nel Sud. Ma chi si innamorò della vicenda di santa Marina e la trasferì in Europa furono più tardi alcuni Crociati (XII secolo). Scriverà nel 1888 il canonico Girolamo De Marco: «I crociati trovarono tuttavia viva la fama delle stupende meraviglie di questa vergine. E, come avviene in tempi di fede, quei guerrieri, pieno il cuore e la mente della divozione che avevano a quella santa gli orientali, tornati ne’ loro Paesi, non seppero dimenticarla; e fecero ogni opera per diffonderne il culto indicandola protettrice potente di quelli che son fatti segno alle calunnie e alle false accuse.  E in Francia, in Spagna, in Italia, fin d’allora il nome di Marina trovò nei cristiani petti un’eco meravigliosa».

La storia di Santa Marina è emblematica della tradizione cristiana d’Oriente: il tema del travestimento di donne in abiti maschili è presente anche nelle storie di altre sante, come Tecla, Apollinaria, Eugenia, Eufrosina, Pelagia e Teodora. I racconti arrivati in Occidente tramite i crociati attraversarono tutto il Medioevo arrivando fino a Giovanna d’Arco (XV secolo). Sebbene fin dall’antichità si sentisse il bisogno di interdire alle donne questo travestimento (così la tredicesima norma del Sinodo di Gangra del IV secolo), probabilmente la possibilità di accedere allo studio e ai vertici della mistica o ad altre prerogative maschili, precluse alla maggioranza delle donne, non fermò molte di esse, le più ardite, anche a costo di rinunciare alla loro identità femminile.

 

Il fenomeno, e con esso l’aspirazione alle pari opportunità, è giunto fino a noi nella letteratura, nel teatro e nel cinema. Dalla Viola de La dodicesima notte (1602) di William Shakespeare e da Joanna de La freccia nera (1883) di Robert L. Stevenson, fino alla Françoise di Lady Oscar (1972) nei manga della giapponese Ryoko Ikeda.

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