Rohingya, per non dimenticare

Continua il dramma del popolo Rohingya, scacciato dalla propria patria, in Myanmar, dai militari del regime che ha preso il potere. Sono 860 mila i Rohingya rifugiati Cox’s Bazar in Bangladesh. Sono molti anche quelli che tentano di raggiungere via mare la Malaysia e l’Indonesia, per essere confinati in altri campi profughi
Rohingya refugees AP Photo

È più che mai doveroso parlare dei Rohingya, dell’“etnia che è tra le più perseguitate al mondo”, come ebbe a dire papa Francesco prima del suo viaggio in Myanmar del 2019.

Sembra che il mondo si sia dimenticato dei Rohingya, presi come siamo da altri problemi, come i vaccini anti Covid che stentano ad arrivare nella maggior parte dei paesi poveri del mondo. E poi l’Afghanistan domina ormai i nostri telegiornali. “Ed ora, chi ci salverà?” Chi salverà i Rohingya? Mi ha chiesto un amico reporter qualche giorno fa.

Anch’io me lo chiedo in questi giorni vedendo le scene dell’aeroporto di Kabul. I Rohingya non hanno mai avuto anche solo la speranza di un aereo della Nato che li portasse in salvo dalle fiamme appiccate alle loro capanne. Chi andrà a Cox’s Bazar in Bangladesh a prendere 860 mila persone e riportarle in patria, nello stato di Rakhine in Myanmar, dove sono nati e cresciuti loro, i loro padri ed i loro nonni?

Forse non ci è neppure arrivata la notizia che il 22 Marzo 2021 un incendio devastante ha ucciso diversi profughi ed ha soprattuto ha distrutto 10 mila capanne lasciando senza un tetto (di paglia) 50 mila persone. Se n’è parlato poco, troppo poco, in Europa, perchè i poveri non fanno notizia. I campi profughi di tutto il mondo hanno in comune molti terribili problemi, e due tra i più tremendi sono gli incendi e gli smottamenti di terra, che portano via le catapecchie con la gente dentro. Nel fuggi fuggi generale, si perdono spesso i figli e molti anziani vengono travolti dalla folla che cerca scampo.

Ormai sono passati 4 anni dall’agosto 2017, quando pochi terroristi islamici attaccarono alcune postazioni dell’esercito del Myanmar: la reazione dei militari si scatenò contro i Rohingya che vivevano nei villaggi della regione. Il risultato fu una catastrofe umanitaria: per salvarsi, 700 mila persone dovettero fuggire in poche ore con uno zaino in spalla e i vestiti che avevano addosso. E rifugiarsi nell’unico posto possibile, a Cox’s Bazar in Bangladesh, per unirsi ad altri 180 mila Rohingya che già si trovavano dall’altra parte del confine.

Dal 1° febbraio 2021, poi, il mondo ha assistito attonito al colpo di stato in Myanmar del generale Min Aung Hlaing, lo stesso che è accusato di aver orchestrato la pulizia etnica dei Rohingya nel 2017, che le Nazioni Unite hanno definito “un’operazione di pulizia etnica da manuale”, per quanto era stata preparata e tragicamente condotta.

Il mondo ha ancora un conto in sospeso con il generale in questione e in molti sperano che la resa dei conti non sia troppo lontana. Il migliaio di vittime, per la maggior parte innocenti, trucidate dalle truppe del tatmadaw (i militari del Myanmar fedeli al generale Hlaing), giovani, famiglie, bambini, anziani la reclamano. L’inchiesta per genocidio da parte delle Nazioni Unite non è ancora conclusa. Un’accusa di genocidio da parte della comunità internazionale contro il generale Mmin Aung Hlaing è auspicata da molti, e sarebbe un duro colpo per chi sostine il regime: la Russia, che è attualmente il principale fornitore di armi del tatmadaw; e la Cina, interessata ad un Myanmar politicamente stabile che fornisca mano d’opera a costo quasi zero; e i paesi confinanti che comprano petrolio e gas dal regime birmano.

Intanto molti Rohingya cercano di fuggire a sud su barche fatiscenti, verso la Malaysia e l’Indonesia, perdendo la vita in centinaia tra le onde. Sono stati più di 700 i morti Rohingya solo nel 2020. E quelli che riescono ad arrivare in Malaysia, un paese musulmano come sono loro, vengono costretti a vivere in ghetti, senza permesso di lavoro né assistenza. Aiutati solo da agenzie umanitarie locali.

È un dovere ricordare i poveri, gli esclusi dalle notizie, che continuano a morire cercando di scappare dalla propria patria, dal paese in cui sono nati. I Rohingya sono un popolo che nessuno vuole sul proprio territorio, di cui nessuno vuol sentir parlare e che creano imbarazzo perfino ai vicini paesi musulmani. Occorre un impegno internazionale per dare a questa gente una casa ed il diritto di vivere nella terra dalla quale provengono. E questa terra è il Rakhine, in Myanmar.

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