Riforme. Quali? E quando?

Sembra ci sia la volontà dei principali partiti di mettere mano alla Costituzione in modo condiviso.
Berlusconi Bossi

Nell’insolito messaggio televisivo a reti unificate, il 25 aprile scorso, nella ricorrenza della Liberazione, il presidente Berlusconi ha rivolto un appello – «più convinto delle altre volte», hanno sottolineato i commentatori – a tutte le forze politiche, affinché non vada persa l’occasione di rinnovare la Costituzione.

Musica per le orecchie del presidente Napolitano. Anche dopo le sortite di qualche esponente della maggioranza («Facciamo le riforme con chi ci sta, noi procediamo comunque»), il capo dello Stato ha continuato ad esortare l’intero arco politico alla «sfida di scrivere insieme una nuova pagina condivisa della storia italiana, rinnovando la seconda parte della Costituzione».

Ma quali riforme? Quando? E con quali priorità? Perché ormai il termine “riforme” evoca una nebulosa di temi, in cui solo gli specialisti (forse) non vanno in stato confusionale.

Quali sono le proposte in ballo? Tutto, ahinoi!, si limita a estemporanee dichiarazioni dell’uno o dell’altro componente del governo. Una delle poche cose certe è (sic!) una bozza. Ovvero un documento riservato di 20 pagine sulla riforma istituzionale che il ministro della Semplificazione Calderoli ha portato a Napolitano, e del quale un quotidiano ha diffuso una sintesi.

«Più che al momento buono, siamo all’“adesso o mai più” – esordisce con Città Nuova l’on. Alfredo Mantovano (Pdl), sottosegretario all’Interno, nonché magistrato –. Abbiamo davanti tre anni di legislatura, un periodo congruo per poter fare una riforma con il doppio passaggio alla Camera e al Senato previsto dalla Costituzione. Sarebbe anche un tempo sufficiente per lavorare su quelle voci che raccolgono un consenso più ampio rispetto all’attuale maggioranza».

«Sì, sul piano costituzionale le cose da fare sarebbero in realtà abbastanza chiare – ci spiega il sen. Pd Stefano Ceccanti, docente di diritto, membro della commissione Affari costituzionali –. Penso alla riforma del Senato, finalmente espressione delle autonomie territoriali, e alla definizione di un sistema più veloce nella scelta del governo». E precisa: «Al di là delle diverse ricette, le differenze tecniche non sono poi così incolmabili. Sono i cortocircuiti politici che impediscono le intese».

Sulla riforma cui mettere mano per prima, il sottosegretario Mantovano non ha dubbi. Quella della giustizia. «Su questo terreno, con molti e qualificati esponenti dell’opposizione – penso per tutti all’on. Violante – ci sono significativi punti di convergenza. Per cui sarebbe il caso di iniziare da ciò che unisce e poi proseguire sui nodi più controversi».

Tra le materie su cui le distanze restano invece notevoli, quella relativa a maggiori poteri del governo per decidere con rapidità senza più le attuali limitazioni e i contrappesi istituzionali. Non minore lontananza tra maggioranza e opposizione viene registrata sui temi del lavoro. Alle misure già adottate di contenimento della crisi, servono ora provvedimenti che favoriscano il rilancio dell’economia e la crescita dell’occupazione. È quanto si aspettano gli italiani, ad incominciare dalle famiglie dei 400 mila che negli ultimi mesi sono stati espulsi dal circuito produttivo.

Dalle dichiarazioni dei due esponenti politici impegnati su fronti contrapposti emergono elementi di convergenza non secondari. E disponibilità al dialogo non meno importante. Anzi, qui si gioca la partita. Se non viene compiuta una prioritaria scelta politica del dialogo, il confronto sulle riforme rischia l’ennesima sterile stagione. E di ulteriori dichiarazioni d’intenti il Paese non avverte proprio il bisogno.

Paolo Lòriga

 

 

Le riforme in rassegna

 

Tre anni per le riforme: un’occasione unica. Ma la carne a cuocere è tanta e occorre partire.

 

Assetto istituzionale. Le più problematiche, per contenuto e per procedura, sono quelle di modifica costituzionale. Dai precedenti tentativi sappiamo che interessano:

·         la forma di governo, se parlamentare, presidenziale o semi-presidenziale;

·         le figure del capo dello Stato e del capo del governo, con la probabile elezione diretta di una delle due, a seconda della forma di governo che verrà scelta;

·         il bicameralismo, che dovrebbe rimanere ma molto cambiato, con una sola Camera politica e l’introduzione del Senato “federale”, espressivo delle autonomie regionali e territoriali;

·         il procedimento di approvazione delle leggi.

·         infine, va menzionata, pur se non tocca la Costituzione, la legge elettorale.

 

Giustizia. E poi c’è il capitolo giustizia, su cui non è possibile dare anticipazioni, ma già sapere che sarà anche di rango costituzionale è una notizia. Da essa si può arguire che si intende cambiare la figura del pubblico ministero, che oggi è parte integrante della magistratura e ne condivide in pieno lo statuto; si prevedono modifiche anche al sistema ed all’organo di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura. Si ridiscute inoltre l’“obbligatorietà dell’azione penale”, cioè l’obbligo che grava sul pubblico ministero di aprire un procedimento penale per qualunque notizia di reato dovesse giungergli, senza che gli sia consentito di fare valutazioni di opportunità su fatti o persone. Di certo anche la Corte costituzionale sarà oggetto di ripensamento, se non nei compiti, nella composizione. Insomma, i tre poteri che intrecciano il sistema democratico saranno tutti coinvolti e bisognerà trovare il giusto equilibrio per garantire i “pesi e contrappesi”. Non sarà toccata invece, stando almeno alle dichiarazioni, la prima parte della Costituzione, relativa ai principi fondamentali, ai diritti e ai doveri dei cittadini.

 

Federalismo fiscale. Oltre alle riforme che richiedono una o più leggi costituzionali, ne urgono altre da fare con legge del Parlamento o con decreti legislativi. È in cantiere, innanzitutto, l’attuazione della delega sul federalismo fiscale, operazione molto complessa e dall’impatto profondissimo, con qualche incertezza di bilancio.

 

Economia. Poi ci sono le urgenze economiche e sociali, per ridare slancio all’economia, sostenere le imprese, combattere la disoccupazione e garantire più potere d’acquisto alle famiglie. A proposito, il ministro Tremonti ha dichiarato che “la riforma delle riforme” è quella del fisco: raggiungere maggiore equità sia nella partecipazione al carico fiscale che nella redistribuzione delle risorse è un obiettivo davvero improcrastinabile, che tocca il patto sociale tra cittadini.

Iole Mucciconi

  

Intervista a Mancino vice presidente Csm

 

Riformare la giustizia.

Ma in modo condiviso

 

Nel dibattito sulle riforme, la giustizia, il ruolo dei giudici, l’identità del pubblico ministero sono oggetto di analisi e di attacchi. Il Consiglio superiore della magistratura (Csm), la cui presidenza spetta al capo dello Stato, è l’organo di governo autonomo dei magistrati previsto dalla Costituzione per salvaguardarne autonomia e indipendenza rispetto al potere esecutivo (il governo) e a quello legislativo (il Parlamento). Dall’agosto 2006 Nicola Mancino ne ricopre l’incarico di vice presidente.

 

 Mettere mano a riforme in materia di giustizia è possibile attraverso leggi ordinarie. Si vanno prospettando invece interventi di rango costituzionale. Quali scenari, allora, si aprono?

«L’ipotesi di interventi legislativi di rango costituzionale in materia di giustizia è periodicamente ricorrente nella dialettica politica italiana, ma non mi sembra che vada per la maggiore in tempi come questi, dominati da ben altre tensioni, in primo luogo nella maggioranza di governo.

«Credo che mantenga piena validità il dettato costituzionale negli articoli (l’intero Titolo IV) della Carta che riguardano l’ordinamento, la funzione giurisdizionale, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, il Consiglio superiore che ne è garante e tutore, il giusto processo e la ragionevole durata dello stesso, l’obbligatorietà dell’azione penale. C’è, invece, ancora molto da fare per rendere effettivi, e fruibili da tutti, questi principi e, su questo terreno, la legislazione ordinaria può e deve intervenire con urgenza per assicurare che il servizio giustizia corrisponda sempre meglio alle esigenze dei cittadini».

 

Ma come procedere allora?

«Bisogna intervenire sul processo, perché la ragionevole durata divenga effettiva, e bisogna dotare la giustizia di risorse adeguate per metterla in grado di svolgere un compito essenziale al servizio dei cittadini. La necessità che il processo si svolga in tempi ragionevoli risponde non a mere spinte efficientistiche, ma all’esigenza di rendere giustizia, giacché la sentenza pronunciata a distanza di anni dall’introduzione del giudizio non può – per definizione – soddisfare la domanda di giustizia. La consapevolezza, dunque, del servizio primario che i magistrati sono chiamati a rendere deve, utilmente, improntare la loro attività e caratterizzarne l’operato».

 

Da qui la necessità di riforme.

«Non nego che per rendere più efficace e giusta l’azione della magistratura occorra intervenire con adeguate riforme. È un compito che spetta al Parlamento e i magistrati sanno che è loro dovere rispettare le competenze del potere legislativo e applicare la legge. Osservo, però, che anche e, direi, soprattutto in questa materia, è altamente opportuno che l’attività del legislatore vada oltre l’orizzonte della legislatura e, per questo, sia sostenuta da un consenso parlamentare più ampio della stessa maggioranza. Ciò per evitare che una nuova maggioranza parlamentare – sempre possibile – intervenga a modificare riforme non ancora andate a regime».

 

 Si parla di un riassetto radicale del Csm. Intento eccessivo?

«Il Consiglio superiore è e deve restare il garante del governo autonomo della magistratura che, nell’esercizio delle prerogative riconosciutegli dalla Carta costituzionale, opera quotidianamente non a salvaguardia delle prerogative autoreferenziali di un “ordine” bensì quale presidio indispensabile per attuare i diritti fondamentali del cittadino. Siamo consapevoli, e non ci stanchiamo di ricordarlo a tutti i magistrati italiani, che il buon funzionamento dell’autogoverno è rimesso, in primo luogo, al corretto esercizio della giurisdizione. Non ci sfugge, d’altra parte, che l’efficienza della funzione rappresenta la migliore difesa dell’autonomia e dell’indipendenza: solo una giustizia efficiente è una giustizia credibile e,         perciò, giusta».

 

In un lavoro di riforma, quali rischi evitare?

«Interventi sui compiti, l’assetto organizzativo e la stessa composizione del Csm sono possibili, mantenendo fermo il suo status di organo di rilevanza costituzionale. Quel che non può cambiare, credo fermamente, è la doppia provvista – di rappresentanti “togati” eletti dalla magistratura, e di “laici” eletti dal Parlamento – della sua composizione. Ma soprattutto credo che non debba cambiare l’unicità del Csm, che rispecchia l’unicità della giurisdizione, nella quale magistrati requirenti e giudicanti condividono la stessa cultura e lo stesso spirito di servizio a tutela della legalità. Ricordo a tal proposito che la nostra Costituzione, attribuendo al presidente della Repubblica la presidenza del Consiglio superiore della magistratura, intende riconoscere la rilevante funzione svolta dall’organo di governo autonomo, ma anche garantire l’unità dello Stato, seppure nella diversità dei tre poteri e nel rispetto delle garanzie costituzionali di autonomia e indipendenza dell’ordine magistratuale».

 

Si ipotizzano la separazione netta delle carriere dei magistrati e la creazione di due Csm. Cosa ne pensa?

«L’attuale ordinamento garantisce una distinzione netta delle funzioni, in virtù della quale lo sviluppo di carriera dei singoli magistrati già si svolge prevalentemente in continuità nel settore requirente o giudicante. I passaggi dall’una all’altra funzione sono numericamente esigui. Chi propone due Csm deve scontare due diverse presidenze, una riconducibile ad una figura terza qual è il capo dello Stato e un’altra inevitabilmente sotto l’influenza dell’esecutivo. Il pubblico ministero, da alcuni prefigurato come avvocato dell’accusa, non sarebbe più giudice. E questa non può essere una soluzione ragionevole. La medesima cultura della giurisdizione, che attualmente tutti i magistrati condividono essendo parte di un unico ordine, è una garanzia fondamentale del cittadino che si rivolge a qualsiasi titolo al servizio giustizia. Non va abbandonata».

 

Ma proprio i cittadini restano interdetti davanti a certi comportamenti di magistrati.

«Non sono – si badi bene – un difensore d’ufficio dei giudici: e anche recentemente ho invitato i magistrati italiani a rifuggire da inutili protagonismi, da eccessi di autoreferenzialità, da certezze immodificabili. Buon senso e senso della misura sono qualità imprescindibili per essere buoni giudici e buoni pubblici ministeri».

 

Secondo lei è ancora valido il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale?

«La condizione della giustizia penale offre spunti per sottolineare che quest’obbligo sarebbe superato. A mio avviso, se non si risolvono problemi organizzativi e non si depenalizzano molti reati, il rischio della disapplicazione del principio non va sottovalutato. Ma se non è obbligatoria l’azione penale, possiamo ancora parlare di Stato di diritto?».

Paolo Lòriga

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